LA MIETITURA Tratta dal libro di A.Sposato e A.Orlando) |
A San Mango il canto popolare trova la sua espressione più significativa nella « mietitura », suggestiva
canzone in vernacolo intonata dai mietitori fra le messi mature, sotto il sole cocente dell'estate.
L'origine del testo, come d'altronde avviene per tutte le espressioni di canto popolare, non risale ad un
solo autore, ma è legata all'ambiente agreste; e tutto il canto racchiude i molteplici aspetti di un'esperienza
di vita che ai nostri occhi può anche avere del pittoresco, ma che allora si presentava nella sua cruda durezza.
L'inizio è contrassegnato da un'espressione d'orgoglio, che emerge al di sopra della sofferenza di chi non solo è costretto a mendicare il lavoro, ma deve difenderlo come una conquista preziosa, mostrando di valere, per non vederselo sfuggire. E la squadra di mietitori sammanghesi, giunta nel Marchesato con la speranza di procacciarsi ciò che la propria terra non arrivava a dare — e questa non è leggenda, ma storia — manifesta tali sentimenti, esprimendoli soprattutto attraverso la figura del capo, Dragone, vestito della tradizionale «mantera» (specie di grembiule di cuoio, per proteggere le gambe dagli steli rigidi e penetranti delle spighe già recise) e con il «vrazzale» (salvabraccio che consente di cingere il fascio di spighe, senza correre il rischio di ferirsi con la falce), ricavato dalla pelle d'un cane «arraggiatu», come il rude animo degli stessi mietitori: Quannu Dragone trasiud'a 'ra Sila, Segue la presentazione del « caporale della squadra », sotto forma di risposta al padrone; a costui si rimprovera con insolito, fermo coraggio — emerge sempre nell'animo meridionale, quando si tratta di assumere le difese d'un amico — d'aver trattato male uno degli uomini più validi, assegnandogli il lavoro secondario della legatura delle spighe recise, (pare che l'allusione trovasse riscontro nella realtà, sul finire del secolo scorso, e si riferisse ad un mietitore mancino, che non riusciva a lavorare con la falce normale). La richiesta viene accolta e, avuta la falce adatta, l'uomo da prova della sua valentìa, recidendo ad ogni colpo ben ventinove spighe: Chin'è 'ru capurale de 'sta squatra?'U capurale sud'io — dissa Dragone Ma tu patrune nun l'hai fatta bona 'ca 'a meglia fauce l'ha' misa a ligare. Ohi metituri, 'ccu 'sta fauce nova ogne faucìata vintinove fila! Comincia poi la parte più bella del canto, la più conosciuta anche ai nostri tempi, e nella quale, anzi, molti identificano tutta la «mietitura». Gli uomini avvertono la necessità di ristorarsi e chiedono al padrone buon vino, perché solo con questo si può continuare a mietere. L'acqua toglie non la sete, ma la voglia di lavorare; e non servirà neppure a far girare, in seguito, la macina del mulino, se la falce non completa il suo lavoro...: Patrune, si vo' mètare lu granu, vatinne a Lizzaro', va piglia vinu; 'ca ccu 'ru vinu se mèta ru granu ccu l'acqua nun ne macina mulinu. Non manca il motivo amore, cantato con tono talvolta malizioso, come nell'allusione a Mariarosa, il cui carattere richiama il paragone con la suora o con la vedova : A 'ru liattu de Mariarosa bellu dormare chi 'cce sta; è 'na monaca e 'na cattiva 'na cattiva e 'na monaca. Poi il riferimento si fa più preciso e sottile, quando l'attenzione viene attratta dalla figlia del padrone, alla quale si rivolge la preghiera di stare un po' lontana per non destare sospetti, ma di prestare ascolto ad una «chiacchierata» amichevole: Ed ohi cusentineddha, gira ddà e votate 'ccà; e 'na giuvane cume 'ttie nun sa fare 'na chiacchiera'? Quindi, approfittando della momentanea assenza della padrona, «Tireseddhaa» viene invitata all'ombra d 'un pergolato, dove si potrà continuare la chiacchierata, gustando un grappolo di zibibbo ( piannulara de' marvascìa. Bisogna eludere anche la sorveglianza del «caporale», come quella della padrona; non è difficile farlo, basta soltanto offrirgli qualcosa per dissetarlo («citrulu» è espressione dal doppio senso, poiché in dialetto il termine è sinonimo di «sciocco») : E vìani, Tiresa, viani mo' chi màmmata nun c'è; 'ca, si vìani a 'ra vigna mia ti la dugnu 'na piannulara ti la dugnu de' marvascìa e 'nu citrulu a 'ru capurale. Torna, poi, il problema della sete, con la solita richiesta di vino: Mo' chi simu arrivati a 'ru timpune Segue ancora una strofetta, che costituisce un meraviglioso esempio di penetrante ironia. Intesa nel significato letterale, è una lode al padrone, che da poco lavoro ed offre molto: porta carri di viveri e vino in abbondanza («'u cuarnu» sembra essere una chiara allusione a quel famoso corno della dea Fortuna). Invertendo, però, l'ordine dei due avverbi del secondo verso, il senso cambia completamente: il lavoro è molto, scarso il pranzo; le vivande arrivano solo col carro che porta le spighe, e che quindi bisogna sbrigarsi a riempire, mentre il vino è offerto in un corno di bue, per razionarlo a ciascun mietitore: Oh! cchi patrune chi 'ngagliammi aguannu, pòcu fatiga ed assai màngicuagnu; 'ca 'a spisa nni la porta ccu 'ru carru Due i sentimenti nelle strofi consclusive: il ritorno di una orgogliosa superiorità nota in tutta la Calabria e sconosciuta soltanto al di fuori dei confini regionali; una profonda amarezza, derivante dalla consapevole acccttazione di un duro destino: Avìa giratu tutte le marine m'era rimasta la Basilicata. Avìa giratu puru la muntagna ma 'a fine mia la fazzu a 'sta campagna. L'esecuzione del canto è a tre voci, che alla fine d'ogni verso si fondono in un unico, armonioso coro; esso ripete tutta la frase, in precedenza variamente spezzettata in diversi cambiamenti di tono, «votate» — fra le quali è interposta l'espressione «core mio» — e che danno origine ad una composita e perfetta armonia: prima voce: Quannu Dragone trasìud'a 'ra Sila... seconda voce: E quannu Dragone tra... terza voce: Core mio trasìud'a 'ra Sila. coro: E quannu Dragone tra... core mio trasìud'a 'ra Sila. prima voce: Tutti li metituri spaventaru seconda voce: E tutti li metituri... terza voce : core mio tutti spaventaru. coro: E tutti li metituri... core mio tutti spaventaru. E' ben difficile, quasi impossibile, rendere attraverso lo scritto la suggestiva bellezza di questo canto popolare. Per comprenderlo in ogni sua sfumatura, bisogna ascoltarlo, dal vivo, da quei pochi anziani che ne conoscono testo e motivo musicale e che, nonostante l'età, modulano ancora le loro voci fino a raggiungere un'armonia perfetta, mettendovi tanto sentimento; ma essi sono dignitosamente restii ad esibirsi, per non sciupare i valori di una tradizione, che per molti è vita vissuta, della quale si sentono gelosi e forse ultimi depositari...
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