BRIGANTAGGIO (1807-1809)

da ricerche di Francesco Torchia


All'inizio del 1800 il Regno di Napoli era infestato da bande brigantesche formate da soldati borbonici sbandati, dai delusi del movimento rivoluzionario del 1799 e da delinquenti comuni. Con l'arrivo dei francesi a causa delle nuove tensioni sociali si ebbe una recrudescenza del fenomeno che raggiunse il massimo della virulenza nel 1809 e che fu sfruttato dai filoborbonici per ripristinare la deposta monarchia.

Le condizioni politiche contingenti non costituirono le motivazioni profonde del brigantaggio, che erano da ricercare nella miseria, nell'eccessiva pressione demografica, nella mal vista coscrizione militare, ma anche nella ferma opposizione dell'emergente borghesia che temeva un ritorno ad istituzioni ed organizzazioni socio-politiche non più rispondenti ai propri bisogni e interessi.

In Calabria, come in tutto il regno, erano presenti numerose bande che commettevano ogni sorta di atrocità. Molti individui per vendetta, per onore, per rifiuto dell’autorità ingiusta e nemica, per gusto dell’avventura, per pura criminalità uscivano dal sistema accettato come legge e si davano alla campagna, si facevano briganti.

Il delitto era il loro mestiere e tuttavia, anche se atroci i loro reati apparivano ai più, non come fatti immorali, bensi come giusta vendetta. In più casi poi il brigante si faceva tutore degli offesi e dei poveri e diveniva perciò il simbolo del rifiuto all’ingiustizia tanto diffusa.

I soldati di Napoleone sempre vittoriosi nelle battaglie europee conobbero nelle nostre contrade cocenti sconfitte ad opera dei briganti che erano pur sempre contadini armati di schioppo e foroconi. Fu mandato dallo stato maggiore del generale Gardanne, Il Capitano De Montigy-Turpen, il quale con il suo carattere truce, cominciò una terribile persecuzione. Il De montigny per accattivarsi sempre più l’animo del popolo emise un editto, volgarmente nominato “ truglio” consistente anche nella presentazione volontaria dei latitanti e nella confessione dei delitti in base ai quali veniva inflitta una pena di pochi giorni o mesi, rinunciando poi a perseguitarlo libero e tranquillo; con questo editto moltissimi latitanti riaquistarono la completa libertà e tranquillità.

Le bande erano bene armate (tutti erano dotati almeno di un'arma bianca), avevano la capacità di unirsi e di separarsi velocemente essendo gli uomini in gran parte forniti di cavalli; i loro spostamenti erano rapidi, facilitati anche dalla perfetta conoscenza dei luoghi. Le milizie civiche e francesi, per lo più appiedate, erano lente negli spostamenti, facilmente aggirabili e battute dai briganti.

A S. Mango la situazione diventò sempre più incontrollabile, non solo a causa delle notizie degli eccidi e distruzioni avvenute nei paesi vicini, ma anche per il rinvigorirsi del gruppo dei filoborbonici che spinsero molti a darsi al brigantaggio, giravano sempre armati con fare prepotente e minaccioso.

Ora pensiamo di raccordare le vicende, gli avvenimenti e l’evoluzione di San mango, attraverso il riferimento,seppure a spanne molto larghe,con gli accadimenti storici.

San mango, intanto, o meglio le sue montagne erano luoghi ideali di nascondiglio per quelle bande siano esse governative o di banditi organizzati in comitive, tanto da trovare (in alta montagna) ancora oggi segni tangibili e simboli, scolpiti su pietre, di questo passaggio e dove trovano risonanza, ancora, i racconti dei nostri antenati su vicende più o meno rocambolesche e fantasiose da loro vissute. Nei pressi del famigerato "passo del Vitriolo" e poco distante dalla “carcara” vi era un passaggio segreto a galleria nominato “passo di pettorosso” che comunicava la vallata destra del Casale con quella sinistra e con sotto attraversamento del Casale. La galleria era composta tutta in gradini.

Murat usò dapprima misericordia e mitezza verso i briganti, come non si era fatto prima. Ma visto che l’indulgenza non otteneva i risultati che se ne sarebbero sperati, fu necessario cambiare metodo per debellare il male che dilagava sempre più. Il Re, allarmato dalle scorrerie e atrocità commesse dai briganti, incaricò il Generale Manhès di operare un'opportuna ed energica repressione, concedendogli ampi poteri per giungere ad un'immediata e definitiva eliminazione del fenomeno brigantesco. “Non lasciate i vostri stivali che quando i briganti avran cessato di esistere”

Fissato a Cosenza il suo quartier generale, Manhés fece scattare le operazioni alle soglie dell’inverno, quando le intemperie, il freddo e la scarsità di riserve naturali ponevano a dura prova non solo la resistenza dei rifugiati in montagna, ma anche la possibilità di aiuto da parte dei loro fiancheggiatori. Furono formate colonne mobili a cavallo che agivano con grande rapidità ed altrettanta crudeltà. I casali ritenuti ricettacolo dei briganti venivano messi a ferro a fuoco. In più Manhés riteneva responsabili dei crimini commessi nel loro territorio i Comuni e impose ai cittadini di uccidere i colpevoli o di consegnarli. Inoltre gli stessi Comuni dovevano sopperire ai bisogni della truppa, offrendo ad essa vitto ed alloggio.In alcuni casi le chiese ed i monasteri divennero dormitori per i soldati.

Furono pubblicate tre Leggi contenenti una serie di ordini e disposizioni miranti al definitivo sradicamento del fenomeno brigantesco:

1) ai promotori e seguaci del brigantaggio si ordinava la confisca dei beni e si promettevano vantaggi a chi avesse favorito la diserzione dalle bande brigantesche;

2) si ordinava di approntare le liste dei briganti e si stabiliva che, se catturati, fossero giudicati dalle Commissioni Militari;

3) si prometteva un premio di 300 ducati a colui che avesse ucciso un capobrigante;

4) per favorire la diserzione si concedeva un premio di 400 ducati, oltre il perdono al brigante, che volontariamente avesse abbandonato la banda; 1.000 ducati, oltre il perdono, al capobanda che avesse facilitato la cattura di almeno 30 briganti, fornendo opportune indicazioni al Comandante militare della Provincia;

5) per evitare che i ricercati potessero ricevere aiuto e protezione dalle popolazioni si ordinava, pena la morte, a tutti i lavoratori che si recavano in campagna, di non portare cibo neanche per sé. Se qualche capo di bestiame, portato al pascolo, fosse caduto in mano ai briganti, tutti gli altri animali sarebbero stati confiscati e i guardiani, quali conniventi dei briganti, condannati a morte;

6) s'imponeva a tutti i contadini atti alle armi di prestare servizio per due giorni alla settimana, pattugliando di giorno e di notte le campagne; i trasgressori sarebbero stati puniti con la pena di morte.

Questo genere di giustizia, così violenta e spietata, si mostrò molto efficace e la Provincia si andò lentamente pacificando.

Gli atti di morte redatti dai parroci, contengono in stile laconico i dati essenziali e non fanno alcun cenno agli eventi bellici e a situazioni di emergenza e non inquadrano le sanguinose vicissitudini nel contesto generale degli avvenimenti.

Per quanto riguarda i morti dai registri parrocchiali risultano anche alcuni delitti, indizio questo di un certo malessere sociale del paese.

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