L'Agricoltura
da ricerche di Francesco Torchia
La ristrettezza dei fondi obbligava ad una coltura promiscua di alberi da frutto ed aratorio.
Il grano prodotto veniva prima mondato con il crivello e poi seminato a getto, in proporzione di 1 tomolo di
semi per 1 tomolo di terra, sarchiato per tre volte con piccole zappe, e incalcinato per proteggerlo dal gelo.
Le messi si mietevano a fine giugno e i primi giorni di luglio e si trebbiava con i buoi. La resa era del quattro o
del cinque per uno, negli anni di buon raccolto si arrivava anche al sette; su una semina di 100 tomoli se ne raccoglievano
500, ma nelle cattive annate mancava la quantità necessaria al consumo.
Si coltivava la vigna alla latina, cioè si legavano le viti ai pali; il tronco era alto circa 1 mt. e i tralci, che dovevano produrre uva, dopo
la potatura, erano di circa 6 cm. e veniva zappata due volte all'anno. Dopo la vendemmia, pigiata l'uva in tini ed a piedi scalzi , si versava
il mosto nelle botti, dove veniva conservato tutto l'anno.
Negli orti si coltivavano cavoli, rape, cicorie, senape e prezzemolo.
Gli animali pascolavano nei maggesi, nelle ristoppie e nei terreni incolti e si abbeveravano alle acque dei torrenti e ruscelli.
Una pecora valeva 6 lire, costava all'anno 4 lire e dava una resa di 5 lire, un animale vaccino valeva 132 lire, costava all'anno 35 lire e
dava un guadagno di 40 lire, un maiale poteva costare fino a 25 lire, un mulo da 200 a 400 lire, si spendeva per mantenerlo 132 lire, un
asino valeva da 44 a 88 lire con una spesa annua di 67 lire.
Le stalle erano costruite con pietre cementate con sola terra, gli ovili erano di legno mal connesso e di paglia.
Gli asini erano l’anima di moltissime attività. Mansueti, laboriosi, instancabili, capaci per ore di attendere sotto il sole o sotto la pioggia, essi
erano i compagni fedeli dei contadini che li usavano principalmente per recarsi nelle campagne e per altre esigenze, necessitando in cambio di una
alimentazione alquanto modesta rispetto ai muli ed i cavalli.
Le pecore si potevano ammalare di schiavina, milza e lupiello, i buoi di scaranzia e impagliatura, alla prima si rimediava con olio caldo e sale, alla
seconda con decotti di malva. L'erba nociva per le pecore era la storta, per i buoi la cicuta.
Il latte era di qualità mediocre, cagliato dava ricotta e formaggio in quantità non sufficiente al fabbisogno della popolazione. Anche gli animali da macello
erano pochi, per cui si dovevano acquistare nei mercati. La carne di maiale lavorata forniva salami sufficienti a soddisfare a malappena il fabbisogno familiare;
venivano allevati anche animali da cortile. I contadini erano soliti usare tutti i pellami, che provvedevano a conciare direttamente.
L'apicoltura era poco praticata, in tutto c'erano venti arnie di legno, di forma rettangolare, un'arnia in primavera produceva due sciami, poteva risentire del clima
rigido e essere attaccata dalla formichella. La cera e il miele si raccoglievano in settembre, ogni arnia produceva 3 rotoli di miele, per smelare si ricorreva
alla barbara usanza di uccidere le api.
La caccia veniva praticata per diletto, si uccidevano i lupi con il fucile, perché recavano danno alle greggi e si dava la caccia sopratutto ai passeri e alla
allodole, in quanto nocivi all'agricoltura.
Il territorio comprendeva 90 tomolate di boschi con 4.000 piante di quercia, che davano un prodotto di ____ lire; per la custodia del bosco si spendevano
annualmente 9 ducati quale salario dei due guardaboschi.
Venivano lavorate per lo più le lane gentili; e si vendevano a 20 grani per libbra (pari a 300 grammi). La filatura era eseguita con il fuso semplice; per
cardare e filare una libbra di lana della migliore qualità si spendevano 13 grani, di media qualità 10 grani, di ultima qualità 8 grani.
Dal filo di lana tessuto si otteneva del panno volgarmente detto tela; che costava 18 grani alla canna; Il panno di prima qualità costava 20 carlini alla
canna, di seconda di 18 carlini, della terza 15 carlini.
Veniva lavorato il legno di quercia, faggio,castagno, melo; si facevano travi di castagno e raramente di quercia per le civili abitazioni, per usci e chiusure
si usava legno di quercia o di castagno, per le doghe delle botti il legno di castagno.
I fabbri si rifornivano di ferro e di acciaio a Cosenza e costava 20 grani a rotolo, in paese non mancavano sarti e calzolai, sediari , manufatti che erano alquanto rozzi.
Tra i tanti artigiani vanno ricordati i fabbri ferrai ( fhorgiarj) che costruivano le zappe, zapponi ed altri numerosi attrezzi da taglio per
finire alla ferratura degli animali; altri artigiani utili al settore erano i cistiari, crivari.
La stragrande maggioranza della popolazione viveva essenzialmente con il lavoro delle proprie braccia alle dipendenze dei proprietari, e quindi sottomessi
con tutta la famiglia, in cambio di cibo e di qualche compenso in natura.
© Sanmangomia.it - Webmaster: Pasquale Vaccaro