I mulini di fine 1800
Da ricerche di Francesco Torchia
Alla fine dell'800 esistevano in S. Mango 5 molini di cui si ha notizia; da alcune corrispondenze si ha notizia pure dell’esistenza del mulino dei “Cannavali” posto quasi nel greto del fiume Savuto e nella omonima località. Nei mulini si trasformavano tutte le qualità dei cereali ed anche le castagne secche portati dalle famiglie del luogo. La lavorazione delle castagne era alquanto difficoltosa in quanto comportava una continua usura delle macine. Dal catasto del 1809 di S. Mango si rileva anche l’ubicazione dei mulini. Dei cinque mulini quattro erano in zona “destre” e posti l’uno sotto l’atro al fine di utilizzare per l’attività produttiva la stessa acqua e di: Berardelli Gaetano e Ferrari Agostino, di Moraca Giuseppeantonio e Berardelli Antonio, di Napoli Giuseppe e Sposato Gaspare, del Duca di Laurito e da questi a Berardelli Francesco per acquisto dal De Gattis nel 1816. Un altro mulino, il quinto, era posto in località Pruno del Sig. Angotti Bruno. Di tale mulino negli anni cinquanta Filippina Caputo raccontava spesso che da ragazzina notava (in quanto sin dalla tenera età la propria famiglia vi era a colonia) la presenza di un rudere in muratura di pietrame alquanto scadente e con all’interno pezzi di fabbrica di un antico mulino all’interno della proprietà “Amelio” e proprio nel sito posto a monte di circa cento metri dalla zona in cui la via comunale “passo Angelo Renzo” oltrepassava il Casale. Dell’antica forma dei mulini una testimonianza è ancora oggi il molino posto nella proprietà Stranges, un tempo di proprietà di Peppina Caputo e più indietro ancora del Marchese d’Ippolito; Tale mulino in stato di completo abbandono è certamente il più suggestivo per la presenza dei resti della torretta (gora) e per la particolare ambientazione. Più a monte si nota la presenza di antichi canali di alimentazione e due ruderi anticamente utilizzati a mulino dei quali tuttavia non si ha la assoluta certezza che si tratti proprio di quelli in esercizio nei primi dell’ottocento. Dell’altro mulino, di proprietà della Principessa d’Aquino e da questa al Duca di Laurito e poi di Berardelli Francesco, non si hanno concrete testimonianze. Forse si tratta di uno dei due mulini di cui ancora oggi se ne notano alcuni ruderi e che sono posti nelle vicinanze del ponte sul casale e che un tempo venivano comunemente nominati come mulino del Marchese. Le macine erano confezionate con pietre locali aventi speciali requisiti di porosità e durezza ed omogeneità di struttura sclete con mestiere e perizia tra quelle presenti nell’alveo del torrente Casale. Ancora oggi in più zone del Casale e nella zona Frasso sono visibili forme di mole allo stato grezzo e non completatmente rifinite. Nel corso degli anni anche nel Savuto vennero costruiti dei mulini. Nel 1870 i fratelli Bonacci edificarono un mulino nel greto del Savuto nella zona “Visciglietto” proprio nella direzione delle attuali gallerie dl Tribito. Nei primi anni del 900 Pasquale Colosimo edificò un mulino allo sbocco al Savuto del burrone Guerino, l'alimentazione veniva garantita a mezzo di un lungo canale con presa nella zona in cui burrone “tribito” si immette nel Savuto. Dai registri degli atti i nascita del Comune siamo risuciti a ricavare i molinari dei primi anni 800: Francesco Ianni, Pietro Mendicino, Gennaro Ianni, Bruno Molinaro, Pietro Cicco, Tommaso Cicco, Luigi Mendicino, Costantino Caterina, Tommaso Maiorata.
Il momento della macinatura rappresentava il consuntivo, e un po' il bilancio, dell'economia domestica, un grande raccolto garantiva alla famiglia di che vivere senza patemi per tutto l'anno. La storia dei mulini segue quella dei diritti sulle acque. Una legge dell’epoca prescriveva che l’acqua venisse sfruttata prima dai mulini che utilizzata per qualsiasi altro uso. Dovendo sfruttare l’energia dell’acqua, l’ubicazione dei mulini avveniva di norma a poca distanza dal greto del torrente Casale ed in posti però, riparati dalle possibili inondazioni. I nostri molini erano esclusivamente a ruota orizzontale perché questo tipo di ruota consentiva di sfruttare al meglio le caratteristiche del canale di alimentazione.
La struttura produttiva veniva azionata dalle acque veloci del torrente Casale”, che, raccolte tramite un "acquaro" (ampia condotta in terra battuta che portava le acque dal punto di presa verso il molino) in un invaso terminale denominato "vurga", e da questa si immettevano in canale a forma tronco di cono in pietre alto circa 6,7 metri e chiamato torretta (gora) ove la notevole pressione dell’acqua per effetto della caduta, imprimevano la velocità necessaria a far girare le pale. Alla base della torretta (gora) era situato un cassonetto di legno od in pietra lavorata, a forma di imbuto chiamato “cannella” che serviva a raccogliere in una unica sezione ristretta tutta la massa di acqua in modo da sprigionare una notevole pressione dell’acqua che proseguendo andava a sbattere violentemente sulle pale. Da ciò si azionava una macina a palmento (parmiantu) situata nell’unico locale di cui è composto il mulino. Le acque proseguivano verso l’esterno in un cunicolo ricavato sotto il pavimento ed andavano ad alimentari gli altri mulini.
Questo tipo di macina era formata da due mole sovrapposte: una fissa, o dormiente, l'altra girevole.
Prima di tutto il grano doveva essere ripulito da impurità. Questa fase veniva effettuata dal contadino che coltivava il grano oppure era il mugnaio stesso a dover eseguire questa procedura in quanto la presenza di corpi estranei comportava deterioramento delle mole. Il grano veniva poi trasferito a spalle e versato dentro la tramoggia vibrante (piramide rovescia in legno di castagno posta sopra le macine, oppure in una cassa di legno a forma di parallelepipedo). Al vertice basso della tramoggia (trimoja) vi era un dosatore che in relazione delle vibrazioni subite regolava la discesa del grano tra le macine. Il grano una volta entrato tra le due macine, subiva la prima rottura per sfregamento contro la mola dormiente nella parte centrale delle "ruote" di pietra e poi, verso la circonferenza esterna veniva finemente macinato. La frantumazione si svolgeva tra le due facce opposte delle macine, una concava l'altra convessa. Su queste facce sempre perfettamente centrate e distanziate erano ricavate scanalature elicoidali "a raggio di sole" indispensabili per ridurre la temperatura d'attrito e sospingere agevolmente tutta la farina verso l'esterno. Il prodotto veniva poi raccolto dal bordo delle due mole e contenuto in una cassa di legno chiamato palmento (parmiantu).
Le macine, in pietra dura , che non si sgretola, avevano un diametro di circa un metro e compivano 30 giri al minuto per produrre normalmente un quintale di farina ogni 4 ore. Le mole subivano una continua usura e necessitavano di una quasi periodica manutenzione, che consisteva nella ripresa delle scanalature mediante un sottile scalpello ed una martellina in ferro. Durante i periodi di massimo lavoro del mulino tale operazione avveniva a turnazioni settimanali. Il mugnaio veniva ricompensato o con denaro o in natura e la cui misurazione avveniva con un apposito arnese di legno chiamato “minella” e della capacità di 5 rotoli (circa 4,5 kg), corrispondente ad una percentuale di circa il 10% della farina che aveva macinata.
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