FAIDA TORQUATO-MORACA-BERARDELLI

FINE 700

Da ricerche di Francesco Torchia
 

 

In questa atmosfera violenta e torbida di vuoto di potere e di disordine economico e amministrativo fu favorito il dilagare dell’anarchia. Le vendette le violenze, i saccheggi ai danni dei beni dei possidenti continuarono con sempre maggiore virulenza.

Dappertutto si scatenarono le lotte sociali e si formarono bande di delinquenti di ladri ed assassini che accrescevano ancor più il disordine e l’insicurezza.

Lo stato di estrema indigenza fece svanire ogni pur minima remora etica ed il soddisfacimento dei primari bisogni dell’esistenza non conobbe ostacoli di sorta. Molti dei capi banda sanfedisti sotto la copertura della loro fedeltà alla Corona ed attaccamento alla causa borbonica dettavano legge indisturbatamente.

Gli avvenimenti del 1799 aggravarono notevolmente le condizioni dell’intera provincia. Essi servirono a dividere ancor di più la popolazione, rinfocolarono gli odi di classe, seminarono lutti e risentimenti. Il banditismo aveva in questa triste realtà di ingiustizia la sua giustificazione.

Disordini e violenze erano abituali in ogni tempo ed in ogni ora. Erano schiere di ladri e scellerati  assassini; la criminalità era diventata sfrenata  e  ogni paese  aveva il privilegio di avere una propria comitiva di banditi.

Come è solito avvenire durante i periodi di sconvolgimento, gli odi tra le famiglie si tramutano in rivalità politiche allo scopo di potersi vendicare impunemente degli avversari. Gli scellerati, pertanto, che non mancavano profittarono del disordine esistente per compiere le proprie vendette private, camuffate sotto la veste del patriottismo.

In questo clima si inserisce un episodio noto come la faida tra le famiglie dei Torquato da una parte  e quella dei Moraca e dei Berardelli dell’altra  ed il racconto di quegli avvenimenti è veramente emblematico di quei tempi travagliati.

La famiglia Moraca, con a capo il padre Notaio Don Angelo, spadroneggiava sul paese facendo incetta di cariche ed usando ogni sopruso.

Giuseppe Antonio Moraca figlio di Don Angelo Capitano della Guardia Civica del Circondario di Martirano fu uno dei più attivi e zelanti contro il brigantaggio.

Più volte sostenne conflitti ostinati contro malviventi scorridori di campagna e ne riportò la meglio sia con la cattura che con la uccisione.

Per la loro prepotenza erano odiati dalla popolazione che ne temeva lo strapotere e ne subiva le angherie.

Le famiglie Moraca e Torquato non tralasciavano occasione per ostacolarsi vicendevolmente.

La ruggine risaliva a tempi molto lontani e nulla era valso in passato ad appianare le controversie che rimanevano sempre in sospeso.

 

 

 

Il disfacimento di una famiglia

 

D. F.SCO  PASQUALE MARIA   VILLELLA (N.1772)

 

 

Chi legge questi versi

Ma senza alcun piacere

Escusa lo scrittore

Del poco suo sapere

 

Fatto istorico

Della morte violenta degli

Cinque german fratelli, figli del

Dott. Fisico Carmine Torquato, cagionata

Dagli despoti, e prepotenti Sammanghesi

 

EPOCA   1802

 

 

FAIDA

TORQUATO / MORACA-BERARDELLI

 

 

 

1

Gli egreggi fatti, e le prodezze or ora

Di tal fratelli or vi farò sentire.

Musa deh per pietà mia cara ancora

Or fa, che a tutti or io faccia capire,

Lo spirto che han mostrato fin ad ora,

E quel che fan vedere in avvenire,

se al mio dire darai lume migliore

descriverò con versi il lor valore.

 

2

O voi il Delfo Apollo, se dareste

Soccorso ancora alla mia bassa mente,

le disgrazie, li terrori, e le tempeste

sentir or io farei nel di presente,

la bravua di quei dirò, le feste,

i successi, el valor si gran possente;

Espongo inoltre il modo, e ben oprare

Il dolce loro dire, e buon parlare.

 

3

A difficile impresa accinto sono,

e mi palpita il cor perché non posso

giungere al porto, se dal Ciel’ in dono

di lume un raggio non mi viene addosso,

mi prost’or dunque a quel celeste trono,

che da giusto fine vi veggo mosso,

che diami a questi versi un po di aiuto,

che senza un tal favore mi rendo muto.

 

4

Disposto or già mi sono a raccontare

In questi pochi, e mal composti versi,

Quella gran strage, che si volle fare,

Da quei barbari despoti, e perversi,

Niun giammai potevasi ideare

Estinta una famiglia, e non doversi

I rei punir, che fecero morire

Fratelli  cinque, senza delinquere.

 

5

Su di questi fratelli allora stava

Attento ben il padre agli educare

In ogni dì alla scuola li mandava

Con farli sempre ben studiare.

Se mancavano allor li bastonava

E li proibiva ancor di non mangiare.

Adesso si vedea di gran furore

Per dar ai figli suoi giusto rigore

 

6

Io parlo dei Torquati, che nel mondo

Fur sempre al par di grandi eroi,

L’ aggir di essi mai fu furibondo

Come di certo costa ad ogn’un di noi.

Di animo sempre furon giocondo

Non mai credendo quello, che di poi

L’accadde per nemici invidiosi

A far di lor la strage dissiosi.


 

 

7


 

La prima causa fu la gelosia

Per la donna chiamata Marianna,

Lo scrivo questo, ma senza bugia,

Né  vi sarà verun che mi condanna

Che avessi or detto  minima eresia

O cosa alcuna, che a ciascuno inganno

Il ver dirò, che porterebbe orrore

A chi di sasso non tenesse il core.

 

8

Fece ancor l’invidia la sua parte

Che pur bramava tal distruzione,

I gran nemici con maniera, ed arte

Dan funesto principio alla tenzone,

Fecero false, e finte tante carte

Per sempre farli star nella prigione

Ma come questi non avean delitti

Stavan pien di cordoglio, e molto afflitti.

 

9

Il primo distruttor di tal famiglia

Fu quello che chiamavasi Gaetano,

Inarcate tenea sempre le ciglia

Onde d’aspetto ogn’or sembrava strano,

In vedersi al certo si somiglia

Al gran fabbro, che avea di nome Vulcano,

Egli spesso la bocca apriva al riso

Ma era del tradimento allor l’aviso.

 

10

Moraca d. Gaetan per gelosia

In odio avea a d. Pasqual Torquato,

Che per si gran vaghezza e leggiadria

Molto da Marianna egli era amato,

Stava con dessa sempre in compagnia

Felice si credea l’innamorato,

Per godersi colei cotanto bella

Che sembrava del ciel la vaga stella.

 

11

Che fa Gaetan? Che pensa! E in quel partito

Si appiglia! Per potere un grande amore

Egli distor che desso ancor ferito

Che conservava amaramente il core,

Con calunnie lo dichiara da bandito

Come se fatto avesse un grand’errore,

L’accusava di aver commesso un furto

Questo vero non fu, eccone l’urto.

 

12

Non aveva Pasqual giammai potuto

Credere del Gaetan il gran furore,

Che nutria per desso, che avea avuto

L’ardire di trafiggerli il suo core,

Per esser più da quella ben voluto

Cosa, che l’affliggeva in tutte l’ore,

Gaetano fu dai suoi ben consigliato

Di prendere a Pasqual poi carcerato.

 

13

Mentr’egli un giorno andava camminando

Si vede all’improvviso torniato

Da molta gente, che andava gridando

Pasquale tu ferma che sei carcerato,

Ed in Cosenza subit’or ti mando

Avvinto di catene, e ben legato,

Così Gaetan l’iniquo allor dicea

Gridando, che Pasqual rubato avea.

 

14

Inerme d. Pasqual, che far potea

Con quei che lo volevan arrestare?

Egli alza il suo baston che in man teneva

E sul capo di Gaetan lo fa piombare,

E nel mentre salvar poi si voleva

Un altro colpo vibra, e fa cascare

Al suo compagno, che par si chiamava

Francesco, insidiator dovunque andava.

 

15

Storditi questi due cercan fuggire

Ver la sua casa per pigliarsi l’arme,

Perché l’incontro non potea soffrire

Mentre colto l’avevano  disarme

Un altro incontro, e lo volea impedire

Ma conto non ne fa, parea un Gendarme,

Così li dice, e poi li fa sentire

Se non mi lasci or or ti fo morire.

 

16

In seguito si avventa, e un colpo tira

Ad un che andav’ allor forte gridando,

Fortemente lo vibra con grande ira,

Che andar lo fa per terra rotolando,

Di Pasqual la bravura ognuno ammira

Mentre disfida a tutti, e va eruttando,

Non è, non è prodezza contra un solo

Andare or di nemici  con si gran stuolo.

 

17

E contro dello stesso ognun poi corre

Per catturarlo al par di un malfattore,

Ma adesso a guisa allor di forte torre,

Che non si crolla mai al gran furore

Di un si gran vento, che intorno li scorre,

E si fa beffa di quel suo stridore,

Così sta fermo d. Pasqual Torquato

Rintuzzando ad ognun, che vagli armato.

 

18

Si spiccano alla fine molti addosso

Di questi che si stava difendendo,

Non si smarrisce tutto che percosso

Da quelli, che l’andavano prendendo,

Si avventa col suo brando, e rompe un osso

A quel nemico, che lo sta ferendo,

È come un fier leone tra quei si mena

E benchè solo, e inerme cede appena.

 

19

Dopo sì lunga e fiera resistenza

In fin poi cede, e con allegro volto,

E senza dimostrar di lor temenza

Tra lacci  vostri, dicea, io son già colto

Non ho delitti, io torno in residenza

E questo si vedrà non passa molto

Fate pur di me quel che volete

Dalle forze tornare mi vederete.

 

20

Ecco che vien condotto il poveretto

Pasqual Torquato, che non fe mai male,

Vedea, che posto fosse a quel picchetto

O pur con tanti ancor nel Criminale,

Ma come volle allor Dio benedetto

Fu posto ad una stanza principale,

Dove stava felice, anzi contento

Perché in quel luogo non sentia tormento.


 

 

21

In tribunal Pasquale carcerato

Allegro stava si ma non contento,

Passava tutte l’ore sconsolato

E il cor ferito avea di gran gran tormento,

Per vedersi egli molto allontanato

Da colei che giammai un sol momento

Le die cordoglio, ma bensì diletto

Perché nel core suo tenea ricetto.

 

22

Provava gran dolor  egli pensando

Che la sua cara non mutasse affetto,

L’alma, ed il core al suo rivale dando

Ed amandolo ancora a suo diletto,

Questo in pensare andava sospirando

E squarciare si sentiva il cor nel petto,

Che per dessa era andato carcerato

E ad onta di Gaetan l’aveva amato.

 

23

Mentre stava costui già carcerato

La collera, e dolor non dimostrava,

Di spirito e coraggio egli era armato

E tutto il dì suonava e festeggiava,

Ma il destin crudele, e l’empio fato

A renderlo meschin si preparava,

E allor fu d. Vincenzo carcerato

E Piermaria fu pax,  morto ammazzato

 

24

Sentendo allora il figlio catturato

La madre accorre tutta sbigottita,

Lo vede tra del sangue in suol buttato,

E ancor trafitto di una gran ferita,

Qual barbaro nemico tanto ingrato

Ti ha ferito così mia cara vita?

Ma chi ti ha maltrattato,  figlio mio

Qui stesso pagherà del fatto il fio

 

25

A canto del suo figlio ella piangeva

E lagrimando al lato di esso stava,

Quel bruto, che trafitto gli l’aveva

La prese pe i capelli, e glil strappava,

Con calci da quel luogo l’estraeva,

E con un gran baston la bastonava,

Ed ancor scaffeggia, e pur trascina

Tal madre afflitta, povera, e meschina.

 

26

Provava ognun dolore, e gran cordoglio

Vedendo tal signora maltrattare,

Smorzar niun poteva quello orgoglio

Né poteasi a favor di lei parlare,

Ma Dio vedendo ciò da sul suo soglio


 

Lo destina colà farlo ammazzare,

Non passò molto, e questi fu ammazzato

Dove tal donna aveva maltrattato.

 

27

La madre di Vincenzo afflitta, e mesta

In casa si ritira sconsolata

Li giunge in arrivar la gran funesta

Nuova, che star la fe più tribulata

Di Piermaria la morte allor là desta

Di un colpo di fucile cagionata,

Piangendo corre, e trova il figlio morto

Sopra la casa sua dentro dello orto.

 

28

Ognun piangeva e ne sentia dolore

In vedere si tragedia così amara

A tutti un fatto tal portò terrore

Ma con dolor piangea la madre cara,

Gridando ad alta voce, e con rancore

In vederlo sdraiato sulla bara,

Figlio senza far male or tu moristi

Figlio li giorni tuoi così finisti.

 

29

Di d. Vincenzo ancor si dee parlare

Ch’era ferito, e stava rattenuto

Lo voleano in Cosenza trasportare

Con un modo indecente, e come un bruto,

Partendo a piè lo fanno camminare

Che non lo avrebbe mai nessun creduto,

Entrar lo fanno poi subito arrivati

Nella forte cogli altri carcerati.

 

30

In vedere il fratello o che cordoglio

Pasquale ne intese, e ne volea morire,

Ma iddio pietoso da quello alto soglio

Lo consola così, li fa sentire,

Se presentate al preside in un foglio

Vostre ragioni, vi farà sortire,

Toccherà Dio del gran ministri i cuori

E da dentro sarete posti fuori.

 

31

Come piacque a sua bontà infinita

Il Preside sentì la lor ragione,

La supplica da lui fu ben gradita

E fe sentire in mezzo del salone,

Ponersi in libertà perché è finita

Delli Torquati la detenzione,

Essendo dalle carte risultato

Che non son rei, la libertà l’ho dato.

 

32

Così essendo alla patria ritornati

Allor l’andava ognuno a visitarli

Dicendo, amici come siete stati

In quel luogo di affanni, e di penare,

Per vostri affanni, ci si son destati

Dei gran dolori, e delle doglie amare,

Ed ora che tra di noi vi vediamo

quell’antica allegrezza proviamo

 

33

Giammai si puòl da noi dimenticare

L’onor che dispensato ora ci avete,

Intanto il cielo noi vogliam pregare

Che le menti di tutti stiano quiete,

Che non tornin di nuovo a congiurare

E contro noi inveir come sapete,

Mentre vogliam la pace, e amare tutti

Quegli, che ci volevano distrutti.

 

34

Si udiva gran contento in ogni parte

In sentirsi la pace d’essere fatta,

Furor non si sentiva più di morte

Ed ognun alla quiete allor si adatta,

Si framezzar gli amici con bell’arte,

Si resero ogni mente soddisfatta,

Tutti stanno felici, e in contentezza

Dentro l’alberghi con sì gran franchezza.

 

35

Credevano i Torquato di godere

Un po di pace, e quieti così stare

Ma l’omo che è il nemico del piacere

La quiete in ogni dì vuol disturbare,

Li vien di nuovo in mente di vedere

Costoro pure ancor di bersagliare,

Il nemico tenea l’arma proibita

Per potergli levare presto la vita.

 

36


 

Mentre sedero questo sospettaro

Esser di nuovo in alcun di assaliti

Si cherubin di man non più lasciaro

E marciavano al par di gran banditi,

Allor al buon costume rinunciaro

E stavano tra fratelli sempre uniti,

Che davano gran timor, nonché paura

Dimostrando la lor si gran bravura.

 

37

Mentre una sera stavano in mangiare

Tenendo la porta dessi ben serrata,

Sentono a quella assai forte bussare

Da molta gente al par di una brigata,

Apri Pasqual, che più non puoi scappare

Dalle mani di questa nostra squadra,

Se voi non vi rendete in nostre mani

Trucidati sarete al par dei cani.

 

38

Rosario che facciam fratello caro?

Ora bisogna di far noi vedere,

Quanto li costerà, sarà a discaro

E con chiarezza ancor farli sapere

Che contro loro sappiamo prender riparo

Ed all’istante alcun farem cadere,

Così se ne anderanno sconsolati

Tutti i nostri nemici, e i lor soldati.

 

39

Guardan d’un buco e vedono venire

Uno correndo l’armi alla mano,

Meglio che posto fossi or tu a dormire

Che ti trovassi il dì mattin tu sano,

Ma tu di certo or vieni per morire

Che reso sei per noi già tu inumano,

Sparano, ed indi sentesi  gridare

Or già son morto prima d’arrivare.

 

40

Fratello il primo colpo ha già ferito

Quello che contro noi veniva armato,

Credeva egli venire a un bel condito

E in un gran pollo di mangiare stufato.

Di certo aveva si grande appetito

Del sangue nostro, ma l’ha già sbagliato

Di Anton Francesco grida il mustacciuto

E da niun  or ha  per certo aiuto.

 

41

Sparan di nuovo e sentono gridare

Che ad alta voce si facea sentire,

Son morto oh dio mi voglio confessare

Fatem’il parrocchian presto venire,

Ma non li fare intanto più sparare

Che a tutti voi faran  or or morire

Avendo essi pur grande ragione

A fare di noi si grande occisione.

 

42

Ci convien fratello or di scappare

Sendo stati da noi già due feriti,

Non ci possiam neppure lunsingare,

Che fare dobbiamo l’inquisiti.

Bisogna dunque con coraggio stare

Al pari di quegli antichi fuorbanditi

Che i nemici facean sempre tremare

Dobbiamo così puranche ancor noi fare.

 

43

Pensaron di scappare e sen scapparo

E dallo uscio di basso sen fuggiro

Di pietre un grosso muro allor saltaro

Si posero di scoppio fuori tiro,

Olà disse il nemico si salvaro

Correte appresso, fate cerchio in giro,

Perché dei nostri han fatto due morire

E il coraggio hanno avuto di fuggire.

 

44

Scorrono la campagna a lor piacere

I tre fratelli senza alcun timore,

A nessun però danno dispiacere

Amando a tutti con perfetto amore,

Verso i nemici solo sembran fiere

Essendo si per quei spavento, e orrore

Onde quelli si resero ostinati

Che i Torquati sian morti, o carcerati.

 

45

Dicea così Rosario a chiara voce

Fratelli che pensiamo adesso fare?

Armiamoci di coraggio, e cuor feroce

Facciam il sagro bronzo or noi suonare,

Facciamo il clero andare con la croce

A quei che diam la morte accompagnare,

Se resteran da noi costoro morti

Far più non ci potran  cotanti torti.

 

46

Fratello caro è buono il tuo pensare

Hai detto ben ma questo Dio non vuole

Che si va di uman sangue ad imbrattare

Al cielo dopo morto entrar non  puole

Attenti ad esso noi bisogna stare

Ed il ciel pregare ben come si suole

Così li bersagliati della sorte

Liberati saran di mala morte.

 

47

Diedero ai loro nemici un gran terrore

Che ne stavano ben sempre in gran paura

Sentendo alcun  piccolo rumore

Gli sembrava vederne la figura

Ogn’or gli palpitava il loro core,

Di gran molto temean la lor bravura

Temeano assai di essere assaliti

E restar senza vita o pur feriti.

 

48

Di spirito e coraggio avean donato

Segni bastanti in qual si sia occorrenza

Andava ognun di loro si ben armato,

Che un tenente pareva di Cosenza,

Anzi ben somigliava al fier Dunato,

Che dava tosto colla sua presenza

Un gran terrore qual uomo valente

Essendo al par del Capitan Crescente.

 

49

Fu ciò per li Torquati un grande errore

Onde si poser tutti a congiurare

Sedar non si potrà da noi il valore

Com’ evidente a tutti or oggi pare,

Dal popolo avean il gran favore

Che saputo l’avean dessi attirare

Dicean i gran nemici in rabbia dati,

È uopo farli morire tutti ammazzati.

 

50

Gran scellerati al mondo sono stati

Ed in Sammango ve ne sono assai

Oh quanti l’esperienza ne ha mostrati,

Che appunto è quello, chei io desiderai

Il padre ed il figlio furono odiati

Per la virtù, che non credeasi mai,

D. Vincenzo chirurgo sventurato

Dai nemici fu sempre maltrattato.

 

51

Era meglio per te dottor Torquato

La legge studiar, non chirurgia

Perché s’è contro te disdegno armato

Chi medico  si fe di te già pria,

E il fin di sol ei star, ha congiurato

Farti morire ucciso in una via,

Come allorra ti accadde in San Giuseppe

Ma Basilio sparare allor non seppe.

 

52

Ferito d. Vincenzo, ma mortale

Non era il colpo non già ricevuto,

Rosario col fratello suo pasquale

Sentono gran dolor dell’accaduto,

Giurano gran vendetta al loro rivale

E a chi congiurare lo avea potuto,

E cercano sfogar il lor furore

Al nemico incutendo un gran timore.

 

53

Uniti in casa di quel empio erode

Gaetan , Francesco, e gli di lui fratelli,

Il Gaetano qual capo della prode

Facciamli morire disse da agnelli

Ognun di noi si dee mostrar da prode

Per far morire or si a codesti imbelli

Che tengono con la loro prepotenza

La patria oppressa colla lor presenza.

 

54

Pensar più non si dee da creatura

Come si è praticato nel passato,

Dovrà pigliarsi bene la misura

Per avervi di arresto un buon mandato,

Un di noi partirà con gran premura

Per trovar in Cosenza l’avvocato,

Onde ottenere l’ordine di arresto

E con la squadra poi tornar qui presto.

 

55

Francesco crudo al par del fier Simone

Sentir gli fa voler egli partire,

Pensare intanto a far provvisione

Per quella gente che farò venire

E ad esso che siam posti alla tenzone

Colli soldati li farem perire

O l’andremo a pigliare siccome a gatti

Che stan dentro le grotte quieti e matti.

 

56

Partì Francesco ed in Cosenza giunto

Dall’avvocato si portò all’istante

Li manifesta subito a quel punto

Con maniera espressiva ed elegante

Voler saper l’interessante assunto

L’amico della patria e vero amante

Per potersi i Torquati carcerare

Ci dovete un mandato or procurare.

 

57

Risponde l’avvocato e fa sentire

A Francesco che stava ad aspettare

Ciò che pretendi non potrà sortire

Vattene in pace e non mi tormentare

Non vidi dei Torquato mai venire

In robrica alcuna, come puoi osservare

Francesco ciò sentendo infuria dato

Sen torna  assai confuso e conturbato.

 

58

In sentir la risposta i collegati

Si uniron tutti a far concistoro

Marciano li Torquati or ben armati

Ne somiglian verun potrassi a loro.

Essi da molti sono al certo amati

Perché non han cercato argento ed oro,

Se scovriranno  questo nostro ordire

Ci faranno per certo assai pentire.

 

59

All’istante sen vanno indi a Scigliano

Che di diparto il Capitan vi stava

Gli sborzano ducati cento in mano

Per si gran somma molto ne brillava

In vedersi confuso il capitano

Le die la carta in cui l’ordine stava

Che arrestare si possono i Torquati

Ed in carcere condursi ben legati.

 

60

Il mandato ottenuto essi di arresto

Alla patria gioiosi fan ritorno

Quello che dobbiam far facciam noi presto

Prima che quelli ne fossero a giorno

Che se a lor si farà ciò manifesto

Per noi sarebbe al certo un grande scorno

E se l’affare non si potrà eseguire

Risco passerem di lor noi pur morire

 

61

Risolvono i Torquati di assalire

Con gran  stuolo di gente ben armata

Che avevano di certo inteso dire

Che a letto d. Pasquale stava ammalato

E d. Vincenzo non potea sortire

Essendo della verita incomodato

Non li potea Rosario fare dell’argine

Ancorchè fosse Aiace di Cartagine.

 

62

Il giorno di settembre dieceotto

L’assassini li vanno ad assaltare

L’assalgono di sopra e pur di sotto

Incominciando tutti indi a sparare

All’intorno l’albergo circondato

Il baricel che sì si udia gridare

Ognun si impegni a trucidare quelli

che resi della patria sono ribelli

 

63

Rosario solo che far ei potea

Contro lo stuol di tanti suoi nemici?,

Congiunto alcuno seco non aveva

Ecco finiti disse i di felici

Questo giorno fatale io non credeva,

Morir dover al par degli infelici

Dicendo questo spara la scopetta

El caporal ferì della squadretta.

 

64

Il caporal poi grida io son ferito

Non vi fate scovrire attenti state

È nel mestier dell’armi assai perito

Non si credea ma pure è veritate

Mi pare franco il giovine ed ardito

È se vi scuopre a morte certa andate

Di stare attenti dunque or io vi dico

Perché rosario è vostro gran nemico.

 

65

L’uscio serra ferito il caporale

E di scovrire cerca altra persona,

Alfin di dargli un colpo assai mortale

Onde l’alma dal corpo gli sprigiona

Vede un soldato senza antemurale

Gli tira un colpo, ed alla pancia il dona,

Grida costui son morto e nel gridare

A terra estinto si vede cascare.

 

66

L’assedio si rinforza nel sentire

Le gran prodezze fatte da Rosario,

Perdono li soldati il loro ardire

In vedere il valor dell’avversario

Si grida, che nessuno dovrà sortire

Del posto in cui si attrova o in contrario

Cade alla pena di essere carcerato

E con suo scorno alla prigion mandato.

 

67

Moraca il Capitan, e i Berardelli,

Che come capi si vedean marciare

Prendevano le genti al par di agnelli

Ed all’assedio li faceano andare,

E per donar coraggio ancor a quelli

La campana a martello facean suonare,

Ed andavano allor sempre girando

Di qua e di la le poste visitando

 

68

Ognun che nella patria si trovava

E che pur l’armi maneggiar poteva,

Se questi volontario non andava

Vi lo forzava chi il potere aveva.

Il campo d’ora in or si rinforzava

Da molta gente, ancor che non voleva,

Andare in contro degli fier Torquati

Che eran per dargli morte assediati.

 

69

Sparare si sentiva ad ogni parte

Sentivasi gridare ad alta voce

Sparate da dovere e non ad arte

Ogn’un di voi si mostri assai feroce

Badate, somigliare al fiero Marte

Che era di sguardo e di figura atroce

Per farli spaventare, anzi atterrire

Per catturarli o pur farli morire.

 

70

È finito per noi dice al fratello Pasqual,

Che  molto egli era incomodato

Venne il giorno per noi del gran macello

Da nemici a più tempo preparato,

Condotto ogn’un di noi come l’agnello

Alla morte per certo vien portato,

La vita finiremo, oh dio immortale!

Senza avere giammai fatto male.

 

71

Risolve già di arrendersi Pasquale

Perché allo in piedi non potea più stare

Il morbo lo avea reso afflitto e frale ----

Che bene non peteva più sparare,

Dicendo tra di se mai feci male

Onde non mi dovran morte donare

Se condotto sarò poi carcerato

Sarò fra poco tempo liberato.

 

72

Reso costui fu subito condotto

In casa di Vincenzo sui fratello,

Ebbe colpi colà per fin ad otto

E della vita sua si fa un macello,

Dalla finestra lo gettaron sotto

Ed a guisa di un piccolo cervello

La fine fu questa dello sventurato

Che aveva il nome di Pasqual Torquato.

 

73

Di certo non si sa chi gli dia morte

Si disse, che chi dentro lo portava

Era un barbaro, iniquo che la morte

Dar gli dovea, ma non la meritava

Entrato poi che fu serrò le porte

Per non sapersi il reo, che morte il dava,

Semvivo dalla finestra lo buttò

Di un mangano a un piron si conficcò.

 

74

Il povero Pasqual, mentr’egli vede

Di sacca sguainar  quell’empio stile

Dal carnefice s’inginocchia al piede

La vita gli chiedeva con atto umile

Per carità la vita gia li chiede

Nulla curando di sembrar ciò vile,

Ma quei per isfogar il suo furor

Con molti colpi gli trapassa il core.

 

75

Colle braccia distese al par di croce,

In ginocchio si butta, ed a pregare,

Pasqual comincia con tremola voce

Al crudel che gli vuol morte donare

Alzando gli occhi vede che il feroce,

Col stile in man lo già volea ammazzare

Chinando il capo sottovoce dice

Qual mal ti feci io povero infelice.

 

76

Da varie parti contro dei Torquati

Vennero molti per donarli morte,

Vennero da Scigliano assai soldati

Accompagnati di un grande uomo forte

Di scoppio e di coltelli ben armati

Portaron di cartocci ben due sporte

Fra tutti essi furono i migliori

La facean da bravi gladiatori.

 

77

Da Altilia ancor ci fu Bruno Ferrario

Uomo di molto spirito e coraggio,

Vivo prender voleva l’avversario

Per dar del suo valor a tutti saggio

Gridava ad alta voce o d. Rosario

Donati in mano mia or tu in ostaggio,

Che ti assicuro non farti morire

Ne male da niun fart’ inferire.

 

78

Il mio valor tu sai, il tuo saccio io

Se ti rendi in mia mano viverai,

Io di vederti salvo ho gran desio

E pensare tu ben già lo potrai

Il ciel tu loda, loda il grande dio

Che da lontan per te qui mi portai,

Da nemico non venni nè di ostile

Renditi amico donami il focile.

 

79

Dicea tutto ciò, ma innanzi aveva

Una gran muraglia per riparo

Di rosario il coraggio egli sapeva

Sapeva pure, che era molto amaro

Dal suo posto però non si moveva

Perché il vivere suo stimava caro,

Renditi, disse a me o fier Torquato

Se morire non vuoi oggi ammazzato.

 

80

Il mio gran nome sai, nonché il valore

E quanto far poss’io tu ancor saprai.

Vivere non potrai, se non poco’ore

E dalle mani non ne scapperai,

Difenditi or tu si col gran furore

Ma breve avrai tu vita, e morirari.

Indi sarai pel suol tu trascinato

Infin al tempio, ed indi fuor lasciato.

 

81

Grida tu quanto vuoi uomo feroce

Dicene quanto vuoi tu infin saprai,

Che mai timor portai della tua voce

Questo da ognun si sa, tu pur lo sai,

Accompagnar ne ho fatto colla croce

Al tempio a  molti, ch’a morte mandai,

Così di te far io pure vorrei

E contento alla fine morirei.

 

82

Giacchè sei tanto bravo e pien di ardore

Dal posto il piè tu scostar un sol momento

Che con due palle or ti trapasso il core

Al sul cadere, ti farò col mento,

Lo ardir mi basterebbe ed il valore

Di petto a petto battermi con cento,

Scostati un po da dietro la muraglia

Terminiam tra noi questa battaglia.

 

83

E tu contro a me pur sei venuto

Empio Greco Francesco scellerato,…

Tu credi guadagnarti un gran tributo

Dopo ch’io son morto, o carcerato

Io se vederti potrei un sol minuto

Vedresti tu cosa è Pasqual Torquato,

Che col fucil ti trapassassi il petto

E morire ti farei con tuo dispetto.

 

84

E tu altro temerario giovinetto

Or pure venisti ancor Stefano Aiello?..

Il cor ti strapperei da dentro al petto

E morir ti farei come un agnello,

Non curo, non pavento dal tuo aspetto

Perché ti so, tu sai, non sei quello?

Ch’io già molte volte ti sfidai,

E col mio brando in man ti profogai.

 

85

Avendo dato fine a un tal parlare

Molti colpi riceve di scoppetta,

In quella ora lo volle dio salvare

Colla innata clemenza benedetta,

Cauto guardando vede il suo compare

Che fatto già l’aveva la viletta,

Li tira un colpo senza più tardare

E di testa il cappel li fa volare.

 

86

Di bel nuovo guardando osserva e vede

Quell’altro gran rival Francesco Greco,

Che dal suo posto non muoveva il piede

Guardando attorno ben con occhio bieco,

Rosario spara, di ammazzar lo crede

Come un vile restar  dentro un gran speco,

Certo credeva di donarti morte.

A danno, e pena della sua consorte.

 

87

Il greco si scostò da quel suo posto

E a ripararsi si andò dietro un gran muro

Il qual pareva di essere composto

Per la salvezza sua , lo congitturo

Sdraiato egli colà stava nascosto.

All’attacco tornar era assai duro

Di rosario sapeva egli il valore

Che spavento ne aveva, nonché timore,

88

Non potendo Rosario sostenere,

Che ammazzar non puol alcun rivale

Che niuno si facea  vicino desso vedere

Stando dietro le mura, e le sipale,

Grida costui secondo il suo parere

Con dir, lo spirito mio ora che vale…

Or mentre niun compare in mia presenza

Per dargli un corpo el far di vita senza.

 

89

Intende da lontan gran voce fiera

Con dir rosario or sì tu morirai,

Lo vede si, ma fuor del tiro egli era

Spara con dirgli or tu pria caderai

Questo colpo ricevi alla carriera

E per man di rosario a morte or vai,

Nel mentre spara lo sente gridare

Muori or tu vile, lascia di baiare.

 

90

Si disse che questi era di Lopia

Uno di quei casali di Scigliano,

Era venuto con la compagnia

Che aveva qui mandato il Capitano,

Di morir creduto egli non avia

Ma tornare alla patria vivo, e sano

Dovette intanto qui questi morire,

E da codardo si ebbe a seppellire.

 

91

Intesa la notizia la consorte,

Che lo sposo era morto già ammazzato,

Piangendo allor bestemmia la sua sorte,

E quella del marito sconsigliato,

Io come viver posso o cruda sorte

Priva di quel mio ben cotanto amato,

E mentre egli colà ebbe a morire

Morte fammi lo sposo ora seguire.

 

92

Io senza del mio amato sposo

Dolente i giorni passo e sconsolata,

Per me non vi è giammai verun riposo

Io sempre sono afflitta e tribolata,

Gustar un sol piacer or più non oso

Mentre perdei la mia speme adorata,

Il mio dolore è sì possente e amaro

Il morire per me sarebbe caro.

 

93

Io come riposar porei giammai

Perduto avendo chi cotanto amava,

Il suo bel volto io sempre vagheggiai

E lieta al canto suo sempre ne stava,

Ma giacchè priva di desso io già restai

Una grotta per me chi ora mi scava,

Che luce io più del sol veder non voglio

Lo spirto del mio core scioglier voglio.

 

94

Rosario mentre dentro restò solo

Di invitto agli aggressori fa sentire,

Se morirò io pure di consolo

Che due dei vostri fatto ne ho morire,

Spero alcun altro di straiarne al suolo

Mentre ho riposto in ciò le mie gran mire,

Avanti gli si fa Gennar Ruperto

Gli tira un colpo e gli trapassa il petto.

 

95

Allegro di tal colpo egli brillava,

E li si accese in petto un gran furore,

Sembrava un altro alcide mentre dava

Alla  idra morte con sì gran valore,

In mezzo a tanti colpi ancor sembrava

Quel figlio di Manilio pien di ardore,

Che vinse una battaglia alli Romani

Facendoli morir al par dei cani.

 

96

E mentre guarda di un portello fuora

Vede un armato in ordine mal stare,

Carica la scoppetta, e non dimora,

Che di certo li vuol morte egli dare,

Dritto gli spara, e sente il grido ancora

Son morto, or più non posso più campare,

Questi fu di Scigliano un buon soldato,

Che in Sammango a morie fu destinato.

 

97

Rosario centro a tanti, che pareano

Quegli che dien la morte al  salvatore,

Si difendean sì, che non credeano

Donando a tutti un si grande terrore,

Non si sgomenta ancor che gli diceano

Che della vita egli poco avea l’ore

Era coraggioso, invitto, intrepido

Il guerriero  parea chiamato lepido.

 

98

Egli fra cento che con l’armi in mano

Lo tenevano ben dentro assediato,

Sembrò quel grand ‘Ettore troiano

Che stava notte, e giorno sempre armato,

Pareva il formidabile romano

Agrippa molto di cesare amato

Di valore uguagliava   il fiero Achille

Che nel campo troian ne uccise mille.

 

99

Il Capitan coll’empio d. Gaetano

Con si gran truppa ancor di si gran gente,

Non aveano potuto  dar da mano

A Rosario da lor stimato niente,

E gridavano sì, ma da lontano

Con alta voce, che di ognun si sente,

Mentre non si ha voluto egli a noi dare

Fuoco mettere per farli bruciare.

 

100

Presero allora l’abbattute mura,

E di una casa entrati dentro al basso,

Cominciano ad accendere con gran e cera

Oglio mettendo al fuoco, paglia e grasso,

Li diede il fumo allor si gran pagura

Ho perso le speranze ahi di me lasso?…

Cercava riparar, ma non poteva

Perché il fuoco bruciava, e distruggeva.

 

101

L’incendio lo disturba, ed il rancore

Difesa non ha più, non sa che fare,

Non si sgomenta nò, non si scolora

Altra prodezza in fin egli vuol fare,

Prende la cherubina, e vede allora

Un certo alli bocconi camminare,

Li tira un colpo e li trapassa il core

Ebbe di vita sol quegli poc’ore.

 

102

Vedendo poi la casa a fiamme data

Che ardeva a guisa di una gran calcara

La pistola da lui cotanto amata=

Dentro la butta, ancor che  l’era cara,

La scopetta da se si era serbata

Per portarsila seco sulla bara,

Ma dopo morto, che più mi servirà?..

Si butta al fuoco, e pur si brucierà.

 

103

Una camera si era incenerita

Il fuoco penetrava alla altra appresso,

Diciotto anni già fosti or tu mia vita

Sospirando egli disse, ed ora adesso.

Colla morte finisco non più udita

Trascinato io sarò di tanti appresso,

Si fa di rendersi egli allor sentire

Ma li pregava a non farlo morire.

 

104

Si grida, che rosario già si rende

Ma vuole della vita assicurato,

Di d. Peppe la voce pur s’intende

Dicendo, che Rosario sia ammazzato,

Le braccia, ed il suo capo fuori stende

Dicendo a voi mi son raccomandato,

Or se la morte mi si dee pur dare

Vi prego, che mi fate confessare.

 

105

Li dicono rosario non temere

Or sei sul canton della finestra,

Che non avrai di alcuno dispiacere

Nè vi sarà verun che ti molesta,

Scenderai senza dubbio a tuo piacere

Per una scala, che pur or si appresta,

Mentre ei si vede sul canton  seduto

Morto di un colpo su del suol caduto.

 

106

Morì Rosario si, ma non da vile

Come di ognuno si puol già sapere,

Perché ne uccise molti col fucile,

Ed altri segni die del suo potere,

Ripeto che morì, ma non da vile,

E del morir oh quanto dispiacere,

Ebbero li nemici a sopportare

Quando si ferno nelle forze entrare.

 

107

Eran già morti, ed indi che servia

Dietro la morte tormentarti ancora!…

Furono trascinati per la via

In fin al tempio, e poi lasciati fora,

E distesi su due ante,  che tirannia…

Cosa giammai veduta fin all’ora,

Otto giorni li fanno ivi poi stare

E dai cani li fer così mangiare.

 

108

A seppellirli poi chi mai ci andava

Se quello Erode non lo permetteva!..

Fargli squagliare fuori egli bramava

Detto aveva così pur lo faceva,

Credeva, che con ciò terrore dava

E rispetto da ognun poi ne esigeva,

Ma  da pochi egli fu poi rispettato,

E da molti ben poco ancor pensato.

 

109

Disfatti li Torquati avean creduto

Sempre sulla patria dominare,

Come neron volean, far pur di bruto

Che la sua madre fe egli ammazzare,

E non diede al suo maestro un sol minuto

Lo fe dentro di un bagno dissanguare,

E die con l’atri morte Bruto al padre

Ma vittima restò poi fra le squadre.

 

110

Morti i Torquati chi poteva andare

Senza timore a darti sepoltura!…

Il costoro dispotismo facea stare

Ogni persona pien di gran paura,

Sen va Bruno Torquato indi a pregare

Quel Merenzio, che stava in positura,

Qual rispose con voce assai ferale

Donali tomba senza funerale.

 

111

di D. Vincenzo son dimenticato

Sebene fu condotto in Sangiuseppe,

E per farlo morir da disperato

Mangiar li fu proibito allor si seppe,

Per molto tormentar lo sventurato

Chiuso d’abbascio tenea Peppegiuseppe,

E lo facean morire sempre di fame

Al par di un assassin di bestiame.

 

112

Gridava un giorno oh dio per carità

Datemi un po di pan or pria che moro

Gennar Moraca pien di umanità

Disse, entrare non posso, e mi addoloro,

Or serrata è la porta, e chi ci và!

Per la chiave da quel gran cane moro,

Che vuol, che tu di fame resti morto

Come dal suo padrone mi sono accorto.

 

113

La fame lo facea sempre gridare,

E per il gran dolore non mai riposare,

L’inedia lo costrinse di succhiare

Il latte delle poppe di sua sposa,

Dopo poco si vede egli spirare

E dopo morto par che si riposa,

Il fisico d. Vincenzo sen morì

E privo di esequie pur si seppellì.

 

114

Di fisico dottor questi laureato

L’intiera patria allor egli serviva,

Contento stava sì quello ammalato

Perché  coll’opra sua si ben guariva

Non era più altro fisico chiamato

La sua fama per tutto allor fioriva,

Col povero sempr’egli era avvenente

Perché da questi mai voleva niente.

 

115

Fra tutti li chirughi egl’il migliore

Riputato venia, perché le cure

Dissimpegnava allor con grande onore,

Volgendo in ciò sempre egli le premure,

Col suo bel dir rasserenava il core

Di ognun che stava tra si gran sventure,

Da tutti era Vincenzo ben gradito

Perché di gran virtude era fornito.

 

116

Oh crudeltà inaredita! Oh cuor feroce!

Oh barbari! Oh crudeli! Mai fu inteso

Un fatto sì consimile, ed atroce

Fan d’inedia un morir a terra steso

Lo ferno sì mori corse la voce,

Che questi gli era di s’ grande peso

Ma fra li gran dolori, e li tormenti

Ei si querela con sì fatti accenti.

 

117

Qual mal li feci, che mi fan morire

Da morte che non puolsi sopportare,

La fame non si puol giammai soffrire,

E mi l’han fatto giorni assai assaggiare,

Oh dio non fan da me nessun venire

Volendomi al morir presto mandare,

Non sentiran piacere, e mai contento

Se non quando son io di vita spento.

 

118

Proteso innanzi a dio, che non ho fatto

Né fatto far a questi mai del male,

Anzi a veduta, ancor di soppiatto

Ben io l’ho fatto, a questo intier casale,

Potrà saperlo, mentre in ogni tratto

Me si han veduto, col german Pasquale,

Il ben fatto si l’han dimenticato

Mentre i fratelli a morte, han or mandato.

 

119

Non posso nò saper qual sia il motivo

Che dichiarati son nostri rivali,

La causa sarà questa, che ora scrivo,

Che non vogliono altrui a loro uguali,

Or sentono un piacere si gran giulivo

Per vittima esser noi dai loro strali,

Con morire noi altri poverelli

Fanno gran festa i due german fratelli.

 

120

Ingrati, traditor, maldicenti

Barbari, senza fe veduto avete,

L’ esterminio final degli innocenti

Cinque fratelli, e lieti voi ne state!

La fin dei vostri dì tra li tormenti

Certamente che voi passar dovete,

Mentre il ciel non potrà tanto soffrire

Chi lo condanna in bando, e chi a morire.

 

121

Quell’eterno fattor dell’universo

Pagar ve ne farà per certo il fio,

Inciamperete a caso iniquo, e avverso

Che a roina vi manderà quel grande dio

Così vuole, pel far vostro perverso,

E ciò vel far sentir per mezzo mio,

Avvinti tra li lacci allor sarete

A tempo sì, che non lo crederete.

 

122

Io chirugico Vincenzin Torquato

Qual dispreggio non ebbi nel morire!

Disteso a nuda terra coricato

Senza guida mi fecero morire,

Posero un morto sbirro allo mio lato

La dicui puzza non potea soffrire

La pena che Merenzio dava ai rei

Nel fin del mio morir soffrii dovrei.

 

123

Quei che al nostro esterminio poser mano

Pagar per certo il fio pur ne dovranno,

Il lor castigo non sarà lontano

Anzi non passerà seppur un anno,

E molti d’essi infin con caso strano

Nelle forze la vita lascieranno,

Perché senza ragione hanno sconfitto

Una famiglia senza far delitto.

 

124

Gli altri che resteranno tra viventi

E dalla prigionia sen torneranno,

I giorni passeran sempre scontenti

E in bersaglio fatal sempre saranno

Saran vessati di sinistri eventi

Piacer non vi è per loro, ma sempre affanni,

E pure moriranno tra carcerati

E fuori della patria l’altri esiliati.

 

125

Se Rosario, e Pasqual col loro aggire

Davano alcun sospetto di timore,

Si concede, che voi sfogaste l’ire

Contro dessi, ma non con tal si orrore

O dio! L’avere poi fatto morire

Con fiero colpo, che trafisse il core

E quel Piermaria bel giovanetto

Non vel perdono mai dio benedetto.

 

126

E la morte dell’altro mio germano

Cagionata dal vostro barbarismo

Io dico sì del mio fratel Gaetano

Opra non fu del vostro dispotismo!..

Il colpo che tirò quell’empia mano

Vendetta attirerà, tal io sofismo,

Di questi due fratelli l’empia morte

Sì gran vendetta ne farà la corte.

 

127

Di don Vincenzo il detto venne a chiaro

E tutto si avverò quel ch’egli disse,

Tempesta cominciò senza riparo

Saper non si potea dove finisse,

Dolore acerbo, pessimo, ed amaro

L’omicida provò, dio lo prescrisse,

Ed è quel passo, che non puol fallire

L’uccisore dovrà così morire

 

128

Quei che a distruger la mano diero, e opraro

Quella superba Troia, incendiare,

Da tal rovina, avvenimento raro

Morte, ed affanni ebbero a passare

Giunto alla patria Idomeneo si caro

Si vide dai suoi tosto scacciare,

Perché con proprie mani il figlio uccise,

Il ciel per castigarlo ciò permise.

 

129

Quello Ulisse, che fu di grande aiuto

Col suo savio pensare e molto agire

Con tuttò ciò, che molto egli era astuto

Gran disaggi in ritrarsi ebbe a soffrire,

Il gonfio mar lo voleva perduto

E morto dentro l’onde seppellire,

Ma scampato dalle onde ebbe la morte

Dal figlio Telegon, tal fu sua sorte.

 

130

Achille il fier che tutto distruggea

Colla orribile spada morte dava

A chi dinanzi a lui si rivolgea

Altiero in guerreggiar ognor ne stava,

Paride lo svenò, che non credea

Mentre la destra a Polisena dava,

Di tanta strage Achil pagonne il fio

Pronostico fatal si pose adempio.

 

131

Il prode Aiace invitto, e valoroso

Di Troia a danno questi eh che non fece!

Coll’aggire suo altiero, e furioso

Un gran parte di essa egli dii fece,

Soltanto fra tutti egli era il glorioso

L’onor pur era delle truppe greche.

Ma soffrir non potendo il grande Ulisse

Col suo pugnal il cuore si trafisse.

 

132

Diomede il grande fu di tanto ardire

Di un colpo trarre ben egli ebbe sorte

A Enea, e venere per desso poi punire

Di amor lascivo accese la consorte,

L’accese si, che non potea soffrire

Che con giovani usava di ogni sorte,

Diomede nel sentir tal diceria

Nell’Italia formò sua signoria.

 

133

Agamennone fu gran generale

Dello esercito greco, e gran prudezze

In guerreggiare fece, ed immortale

Rendere si vedea di sue fierezze,

In fine il fio, pagò di un tanto male

Che egli operò con sì crudeli asprezze

Che in giunger dalla moglie egli fu ucciso

Collo aiuto del bruto all’improvviso.

 

134

Cosi pur anche a quegli che ebber parte

All’intiero esterminio dei Torquati

Non li giovò la lor maniera ed arte

Che furono da dio ben castigati

La corte li trovò rei fral le carte

La pena ad espiar molti ha mandati

All’ altrui tutti di vita il fil troncò

Ed all’inferno a penar poi li mandò.

 

135

Gaetan Moraca, che testè si è detto

Fu già delli Torquati il distruttore,

Nel castello di Cosenza fu ristretto

Per poi il fio pagare in tutte l’ore,

A dormir su del suol era costretto

Cordoglio ove provava, e gran dolore,

Ebbe colà la morte egli a soffrire

Con indecenza si ebbe a seppellire.

 

136

Moraca il capitan si gran premura

Di dar morte ai Torquati pure avea,

Ma l’eterno fattor da sull’altura

L’oprar sua mal ben chiaro egli vedea,

Li dona tempo, sì ma la sventura

A suo tempo  mandolli e non credea,

Mentre trovar lo fece testè arrestato

Per compenso la morte l’ha donato.

 

137

Della patria questi era il gran sostegno

Da tutti era l’amico liberale,

Ogni carica assumeva era pegno

Che sol fra tutti egli era il principale

Arrivato il nome suo era a tal segno

Che reso si era quasi un immortale,

Da tutti si facea sempre amare

Col dolce suo sorriso, e buon parlare.

 

138

Se alcun dì si accendea di gran furore

Indi fra poco posi si serenava

Egli era della patria il grande onore

A suo riguardo ognun lo rispettava

Or dire si potrà ma senza errore

Che ognuno il pater patrie l’appellava

Da tutti si faceva al sommo amare

Il grande Ulisse si potea chiamare.

 

139

In fal giammai sparò la sua scopetta

Allor che per li prati andava a caccia

Stava per ben sparare un po in viletta

Tenendo il cherubin parato in faccia,

Dona morte sparando alla adoletta

Indi con gran piacer la prende in braccia,

Egli era il cacciator fra ognun migliore

Che si acquistò cacciato grande onore.

 

140

Francesco Berardelli  il più crudele

Fier nemico fu sempre dei Torquati

Fu sempre doppio si giammai fedele

Che morti li vedea  o carcerati,

Si rese da cattolico infedele

Fu causa del morir di cinque frati,

In pena di cotanta tirannia

Il ciel morir lo fece in Vicaria.

 

141

Saverio Notarianni il quatrincione

Il fisico dottor nudo spogliò,

Si prese la sua giacca ed il calzone

E la cammicia di addosso li levò,

Ma stando carcerato alla prigione

Da ognun un tal birbon si maltrattò,

Di fame sen morì, così il gran dio

Li fe dei fatti suoi pagarli al fio.

 

142

Morto egli poi che fu pure spogliato

Ignudo tutti lo vedeano stare,

Ignudo dei carcerati biasimato

Nessuno in bene, ne potea parlare,

La pena  pagò si del suo peccato

In modo tal che non si può pensare,

Mentre a luogo non sacro fu buttato

Fu dai cani e dai corvi divorato.

 

143

Son questi i frutti degli mal facenti

E di quegli che non temono il signore

Sono di certo della vita spenti

Pria di venir per dessi le giuste ore,

In odio a tutti sono i miscredenti

Ed in bersaglio ancor del creatore,

Di pace un sol momento mai non hanno

Stan sempre tra tormenti, e duro affanno.

 

144

Il processo attirò quell’uditore

Che del casato egli era Graziano

I tesimoni chiama con rigore

Nel convento dei Padri di Rogliano

E sentendo tale strage per dolore

Al suol getta la coppola sua mano:

A verun libro non si trova scritto

Simile fatto a questo tal sconfitto.

 

145

Essendo accupata l’informazione

Uscito ne fu l’ordine di arresto,

Mentre era dello uditor l’intenzione

Tra le forte li  rei mandare presto,

Allo istante se ne donò commissione

Al Gabriele cadetto, e venne lesto

Che subito pigliò tutti li rei

Ch’erano tutti quanti ventisei.

 

146

Il parrocchian Saverio d’Agostino

Fee sentire allo uditore di Graziano,

Come potrò tornare al mio destino

Senza provare sinistro, o caso strano,

Mi ved’or già la morte da vicino

Essermi preparata dalla mano

Di ognun di quelli che hanno or già sconfitta

Degli Torquato la famiglia afflitta.

 

147

Mi credono l’autor che io fossi stato

Del mal già tutto che gli sovrasterà

Di omission non tengo alcun  peccato

A dovermi confessar pur si vedrà

Di dir la verità sempre ho giurato

Nulla curando il mal, che ne verrà

A quei che dier la morte ai tre fratelli

Con colpi di focile e di cortelli

 

148

Prevedo ancor signor che quegli tutti

Che furono con me da voi chiamati

Per dir la verità saran distrutti

Oppur con atti impropri maltrattati,

Spumano di rancore come i flutti

Quando da vari venti son vessati,

E la seconda strage voglion fare

Come da loro detti il vero pare.

 

149

Il fio per certo ne dovran pagare

Dalla strage di tanti dessi fatti

Mentre il ciel non potrà più sopportare

Tal esterminio, e barbara disfatta

Non dovranno nel mondo più trionfare

Come hanno fin ad or la vita tratta

La vita tra gli lacci han da finire

Termina il dispotismo ed il lor ardire

 

150

Non temer don Saverio e qui sedete

E mi direte i rei che degni sono

Di andare tra le forze, e poi vedete

Che non vi è mai per dessi alcun perdono,

Fra pochi giorni tutti li vedrete

Carichi di catene, e li imprigiono,

E  lascieran li figli, e son condotti

A luogo di penar li dì e li notti.

 

151

I veri rei son quelli che già nemici

Sempre  contro i Torquati sono stati,

Che con calunnie siffatti infelici

Han fatto sempre andare carcerati,

Ed han voluto fin dalle radici

Sdradicar la famiglia dei Torquati,

Tanto che vi è rimasta una sorella

Che vive disperata e poverella.

 

152

Priva rimasta delli suoi fratelli

Questa è di albergo, che le fu bruciato,

Piangeva scarmigliati i suoi capelli

Al terribili caso e disperato,

Si vedea  dai  nemici dei fratelli

Ogn’ora offesa con volto turbato,

Che la voleano pur con quelli estinta

O pur nella prigione ancor respinta.

 

153

Delli fratelli suoi piangea la morte

Che da nemici gli era stata data,

Piangeva pur la sua crudele sorte

Che nulla cosa ancor l’era restata,

Serrate si vedea pur le porte

Per poter ritornare qual era stata

E priva del suo tutto, e di sua gente

Essa piangeva sempre amaramente.

 

154

E voi fratanto signor uditore

Potrete dal processo rilevare

Che ognun dei rubricati fee di autore

Per li Torquati del mondo levare,

Onde per acquistarvi un grande onore

Li potete far tutti carcerare,

Ma pria dovranno andare tra li cancelli

Tutti i Morachi con li Berardelli.

 

155

I complici e li rei furon legati

Da quel bravo cadetto Gabriele

E furon in Cosenza accompagnati

In quello oscuro carcere e crudele,

La notte stavan bene incatenati

L’ore passando tra meste querele,

Essi riposo non provavan mai

Nel vedersi ristretti tra li guai.

 

156

Pareano tutti spiriti dannati

Dentro le forze e si vedean sbranare,

Siamo già qui dentro condannati

Per non godere ma si ben penare,

Stare dunque dobbiam noi carcerati

Per quei che ci han indotto a mal oprare

Per avere dal mondo sdradicata

La famiglia dal ciel cotanto amata.

 

157

Cosa di mal a noi questi avea fatto

Qual disgusto ci avea mai donato?

Ci porta gran rovina tal misfatto

Fatto da noi, che fu un si gran peccato,

Non fecimo morir un piccol gatto

Ma estinsimo la stirpe di Torquato.

La causa non già tutti siamo stati

Che a morte sono andati ai cinque frati.

 

158

o Vincenzo, Rosario, o voi Pasquale,

O Piermaria, e Gaetano, allegri state

Mentre chi vi die morte, in tribunale

I giorni suoi fini senza pietate,

Il vostro nome resterà immortale

Come immortal restò quello di Acate,

E dio non li potendo più soffrire

Morir ha fatto che vi fe morire.

 

159

In vita pochi ancor pur ve ne sono

E dalla sorte sono bersagliati,

Per questi non vi è, mai giorno buono

Dal cielo sono sempre castigati,

Non avrenno giammai dessi perdono

Dovranno sempre stare sconsolati

Dovranno sempre patire, e mai godere

Perché vi dier la morte al par di fiere.

 

160

Or più non vi turbate ombre onorate

Che il ciel per voi ne ha fatto gran vendetta,

Dal tutto siete state vendicate

Mentre il signor scoccò la sua saetta,

E l’ha colpiti poi senza pietate

Com’essi a voi colpir colla scopetta,

Ed han pagato il fio e sono andati

Parte a morire e parte malmenati.

 

161

Se l’autore sarebbe quel poeta

Tanto delli Alemanni un di fregiato

Che chiamato veniva in gran fileta

Maggior lustro alla storia avrebbe dato,

Ma dice lo scrittor con faccia lieta

Non aver la poesia mai studiato,

Per cui domanda scusa alli lettori

Se in legger questa avran trovato errori

 

162

E come senza il nome questa storia

Del vero autore par che sia orfanella

Costretto viene a dir per sua memoria

Che lo scrittor nei sia Pasqual Villella,

Comprende si, che non l’apporta gloria

Che di termini e stile è poverella

Onde sente dispiacer e dolore

Che par non l’ha potuto un dir migliore.

 

Ominibus, et haec evidens veritas fuit;

Et qui verus fecit hos proe sens erat