L’A M B I E N T E

(di Armando Orlando)

            Una comunità basata sul lavoro e cementata da innumerevoli forme di vita sociale; una comunità dove i rapporti di parentela, la religione, gli usi ed i costumi tenevano legati gli uomini e li facevano dipendere gli uni dagli altri; un paese cresciuto attorno al campanile e chiuso in se stesso, con un’economia ai margini della sussistenza, avvolto in un isolamento secolare, lontano dalle grandi correnti di traffico; una società caratterizzata dall’insicurezza e dalla fatica quotidiana, ma ricca di feste, di tradizioni, di abitudini, di valori…

            Un paese dove la gente passeggia, la sera, sulla strada principale, ed è qui che avvengono gli incontri e che nascono i primi amori; un paese dove l’intellettuale, il commerciante e l’artigiano frequentano il bar, mentre il contadino si accontenta della piccola osteria; un paese dove mariti e mogli non si mostrano mai insieme, e sulla strada camminano uno davanti e l’altra dietro; un paese dove la piazza principale diventa il centro della vita e dove gli uomini si dispongono in cerchio davanti alla chiesa, ogni domenica, per aspettare l’uscita della Messa ed ammirare le donne e le ragazze…

            E’ qui che è nato, nel 1888, Domenico Adamo; un paese che ha per nome San Mango d’Aquino, ma che potrebbe essere uno dei tanti paesi della Calabria, tanto erano simili le comunità meridionali tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.

            L’insieme delle condizioni culturali, economiche e sociali, la mentalità, il costume e l’ambiente del tempo influirono notevolmente sulla formazione del poeta, ed i suoi primi 24 anni di vita trascorsi in Calabria, salvo l’esperienza napoletana che durò 6 anni, costituirono una fonte inesauribile di ispirazione per i suoi componimenti.

            Quegli anni diventarono punto di riferimento non solo per l’aspetto nostalgico e sentimentale della sua opera, ma anche ed essenzialmente per le poesie “sociali”, in quanto Domenico Adamo portò sempre nel cuore i ricordi di povertà e di arretratezza nelle quali vivevano gli uomini del suo tempo, e gran parte delle sue opere furono dedicate, come vedremo, al riscatto delle popolazioni sofferenti ed oppresse.

            Le sofferenze dei poveri – ha scritto Jerome Blum – non occupano più di qualche pagine nei libri di storia; per le classi dominanti possediamo invece documenti, oggetti, ritratti e case.

            La poesia di Domenico Adamo, se attentamente analizzata, non solo ci aiuta a comprendere le inquietudini della vita di quel tempo, ma ci conduce verso un filone letterario di crudo realismo che rende onore alla soggezione dei contadini ed alla loro appartenenza a quello che era considerato l’ordine più basso della società; una soggezione ed un’appartenenza che si riflettevano nell’atteggiamento delle restanti classi sociali: proprietari terrieri e commercianti, nobili e borghesi – infatti – ne approfittavano per imporre le loro leggi e per godere di privilegi acquisisti con la forza.

            Esclusi dalla partecipazione attiva alla vita della collettività, i contadini avevano accettato la loro condizione di inferiorità e di oppressione senza ribellarsi, subendo di volta in volta i pesi fiscali, i dazi e le gabelle, le decime, le imposte sul macinato e tutti gli altri obblighi di natura feudale, entrati nella consuetudine attraverso un uso immemorabile ed esercitati sempre da posizioni di forza.

            La società divisa in classi, con deboli e oppressi da una parte e ricchi e violenti dall’altra, sarà un tema costante nella poesia di Domenico Adamo, e queste considerazioni sulla società troveranno conferma anche dopo l’emigrazione in America, quando il poeta si troverà ad analizzare la complessa realtà di una metropoli come New York.

            La vita dei contadini in Calabria, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, veniva ancora scandita dall’alternarsi delle stagioni e dal ciclo dell’aratura, della semina e del raccolto; una vita condizionata dall’avventura meteorologica del tempo e dall’avvicinarsi della festa, con rituali legati sia al calendario ecclesiastico sia alle attività agricole nei campi.

            Il villaggio era formato in massima parte da una comunità rurale  dove ogni membro della famiglia doveva lavorare, di solito, dall’alba al tramonto, per poter guadagnare qualcosa da mangiare o da portare a casa.

            Parlare oggi delle condizioni di vita dei contadini, riuscire a far capire all’uomo moderno, alla gente delle città, alle nuove generazioni le sofferenze e le miserie di quel tempo è assai arduo, perché la tecnologia ha letteralmente travolto quella forma di civiltà; per rendere comprensibili quelle avversità, comunque, basti solo un esempio: nelle comunità rurali di tutto il Mezzogiorno, fino a qualche decennio addietro, la vita con gli animali in casa era normale in molte famiglie, le quali soffrivano non solo per il cibo e per il vestire, ma anche per il modo di abitare.

            I pochi locali disponibili, costruiti con il legno, le pietre, la creta, dovevano essere divisi con gli animali domestici, i quali costituivano spesso una preziosa ed insostituibile fonte di reddito per le famiglie numerose del tempo.

            In una società così articolata, tra una classe dominante ed un ceto operaio e contadino immiserito, trovavano posto, accanto a mestieri tradizionali d sarto, barbiere, muratore, calzolaio, falegname, fabbro ferraio e carpentiere, mole altre attività legate al mondo rurale: il maniscalco che lavorava i ferri di cavallo, il bottaio che preparava le tinozze con doghe e cerchi di ferro, il cestaio, le donne che filavano e tessevano il lino e la lana, le famiglie che curavano l’allevamento del baco da seta, il mugnaio che macinava il grano con i suoi mulini ad acqua…

            Un mondo che oggi è in massima parte scomparso, e che ha portato con sé il senso della solidarietà acquisito dalla gente nel corso di secoli di vita in comune nel villaggio; un senso di solidarietà che è giunto fino a noi solo come ricordo e che ha trovato la sua massima espressione in feste, cerimonie particolari, manifestazioni e tradizioni le cui origini si perdono nella notte dei tempi.

            Gli stretti rapporti originati dalla vita nel villaggio, infatti, avevano facilitato la formazione di una forte coscienza comunitaria: si lavorava assieme, si andava in chiesa assieme, si celebravano assieme le feste, si prendevano assieme decisioni importanti.

            Chi non ricorda, a questo proposito, le donne che si ritrovavano al fiume per lavare i panni? E l’uccisione del maiale alla presenza di amici e familiari? E l’attesa della farina nel mulino, mentre gli ingranaggi della macina venivano azionati dallo scorrere lento delle acque? Quelle stesse acque usate per la macerazione del fusto della fibra di lino, che doveva servire per ricavare tessuti e tovaglie per la famiglia? Chi non ricorda le feste con gli amici e le serenate?

            In un sistema così organizzato, grande importanza assumeva il folklore; folklore inteso come assieme di credenze, di usanze, di ricorrenze che spiegano eventi e fenomeni comuni a tutti i paesi rurali della civiltà contadina e che segnano momenti di particolare significato nella vita del villaggio e nella vita di ogni individuo.

            Folklore inteso come il prodotto di una società immobile, conservatrice, frutto di un sistema economico basato su un regime di autosufficienza, avente al centro la famiglia patriarcale, dove i ruoli si presentavano ben definiti e dove la ricchezza era rappresentata dal numero di braccia disponibili, e quindi dai figli.

            Questa era San Mango d’Aquino nella prima metà del Novecento: un paese povero, con una classe dominante sempre più avara ed esigente e con una massa di contadini e di operai alla mercè dei signorotti locali; ma anche un paese con una propria identità, una propria storia, una propria cultura.

            Una cultura ricca di tradizioni, che l’avvento della tecnologia ha oggi disperso, e vani sono i tentativi messi in piedi per farla rivivere, questa cultura, perché l’aspetto originario delle feste popolari è andato smarrito, e perché è stato assoggettato alle regole dell’attrazione turistica tutto ciò che ha rappresentato il patrimonio di un’intera comunità.

            Una cultura che – ha scritto Vito Teti – in passato è stata sommersa, soffocata, distrutta, negata; e negli ultimi tempi è stata falsata, stravolta attraverso tentativi di strumentalizzazione, mitizzazione, utilizzazione acritica e interessata.

            E così oggi, in questa società industriale e post industriale, del mondo contadino è rimasta solo la memoria storica; una memoria che viene spesso alimentata con le immagini fotografiche e con gli scritti.

            Domenico Adamo, che ha conosciuto la triste realtà della civiltà contadina e che dopo la partenza verso l’America ha sempre portato nel cuore le aspirazioni delle classi umili, ha rappresentato egregiamente questo mondo ora scomparso, grazie alle sue idee, ai suoi canti, alla sua religiosità, ma grazie anche al suo amore per la libertà, al suo coraggio, alla sua tenacia nel difendere la dignità delle persone umane, vivendo sulla propria pelle le tristi esperienze dell’abbandono e dell’emigrazione.

            La sua opera, tuttavia, non si è limitata a rappresentare l’esistente né a rimpiangere nostalgicamente il passato: essa è andata oltre, levando un grido di protesta per le ingiustizie del tempo ed inchiodando alle proprie responsabilità gli oppressori, i violenti, i manipolatori di una società basata più sul profitto che sulla solidarietà umana.

            E’ per questo che la sua poesia appare oggi più viva ed attuale che mai.

   

 

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