La poesia
(di Armando Orlando)
La poesia di Carmine Ferrari si snoda attraverso due binari prestabiliti: l’attaccamento al paese natìo e la passione struggente verso una donna della sua gioventù.
Due amori che rimarranno impressi nel cuore e nella mente del poeta, due amori che lo accompagneranno in ogni luogo ed in ogni circostanza della sua vita.
Due amori diventati ancora più forti dopo il distacco e la partenza: egli infatti lasciò San Mango all’età di 18 anni e si arruolò, nel 1930, nel Corpo delle Guardie di Finanza, dove raggiunse il grado di maresciallo maggiore.
Fu allora, al momento della partenza, che la fanciulla del cuore divenne per lui l’incubo di un sogno irraggiungibile; poi – quand’ella morì – l’amore vissuto in gioventù si trasformò in dolce ricordo, in dolore, in speranza.
La maturazione poetica avvenuta nel corso degli anni ed il placarsi dei forti sentimenti di dolore provocati dal distacco e dalla partenza in età giovanile, hanno portato Carmine Ferrari ad una concezione dell’amore e della donna che si avvicina molto alla maniera del Dolce Stil Novo, dove l’amore – scrive Mario Sansone – non è brama terrena, ma il mezzo con cui il cuore gentile si leva alla contemplazione della perfezione divina, è la sola via per cui quel tanto di nobiltà che la natura ci pone, in stato potenziale, nell’anima si attui e si dispieghi in tutto il suo vigore. La donna – aggiunge Sansone – non è oggetto di desiderio sessuale, ma una creatura angelica, divina, che con la somma di tali perfezioni eleva l’anima a Dio, purificandola da ogni miseria e bruttura terrena.
Sono frutto di questa concezione poesie come “A Mara”, “Ho bisogno”, “La notte è come il tuo volto”, “T’ho rivista nel sonno”, “Mi sapresti”, “Vagheggiando”.
Mentre appartengono al filone legato al paese natìo le tre liriche dedicate a San Mango, “Stradetta solitaria”, e i due componimenti in vernacolo: “’A Madonna da’ Vuda”, dedicato alla Madonna della Buda, che si venera ogni anno il primo sabato e la prima domenica di giugno e che ha sempre ispirato i poeti per il fascino che circonda la sua festa; e “C’era ‘na vota”, ambientato a Carpanzano, uno dei più antichi rioni del paese, dove un tempo i giovani si raccoglievano attorno alla fontana per parlare dei loro sogni e dei loro amori.,
Ma Carmine Ferrari è anche un poeta della memoria.
Gli ho chiesto cosa pensa della poesia; mi ha risposto con frasi brevi ed incisive: “momenti di vita vissuta da persone che stanno accanto a noi, ma anche da persone disperse per le strade del mondo in cerca di migliori condizioni di vita”; “uomini che vivono, soffrono, lottano, amano; uomini che sentono vivo il bisogno di spazi, di luci, di orizzonti più vasti onde creare uno scenario su cui rappresentare il proprio mondo”; “la poesia è al di fuori dei limiti del tempo e dello spazio, è la rivincita dell’uomo sul destino, perché attraverso questa rivincita l’uomo riesce a spezzare le catene imposte alla propria esistenza”.
Sono nate così poesie come “Natale 1946”, dedicata alla propria bambina, salita in cielo la notte di Natale di quell’anno, una lirica dove il continuo ripetere “è festa” si contrappone al dolore dei genitori; come “Vecchia quercia”, dove l’autore sembra parlare con se stesso; come “Mi rivedo”, dove viene rievocata una delle più belle scene familiari del passato, con il camino acceso, il ceppo scoppiettante, ed i parenti e “lei” a lui vicini; come “E’ caduta una foglia”, scritta nell’aprile del 1986 a Roma e dedicata al nipote Daniele nel giorno del suo compleanno; come “Vorrei…”, un dolce canto di speranza, un desiderio di amore, di affetto, di felicità.
Poeta della memoria e dei ricordi.
Quante volte, da bambino, egli ha sognato la vita, seduto sul muricciolo di pietra che delimitava la strada davanti casa sua… e quante volte, di notte, sulla strada illuminata da una luna di fuoco, con essa ha parlato, ha discusso, ha chiesto… e quante volte, dalle ombre che si susseguivano col giocar della luna, gli sembrava di ricevere una risposta…
Ricordi dell’infanzia, come il canto dei grilli, la melodia degli usignoli, il brillar delle lucciole che, rincorrendosi, illuminavano nella notte il suo sogno, i suoi pensieri.
Notti d’incanto, che erano per quell’età un mondo pieno di fate e di rosei cammini, un mondo di lieto e spensierato avvenire.
Quante volte la madre lo sorprendeva sdraiato sul muro di pietra, ed a notte inoltrata lo avviava in casa a dormire… Sono questi i brandelli di vita ai quali si riferisce il poeta!
Come le rondini, che entravano da un vetro appositamente rotto della finestra della sua stanza e che nidiavano sotto le vecchie travi del soffitto - travi mai imbiancate per paura che le rondini non tornassero -, e come la tristezza al loro ripartire… una partenza che lasciava il poeta più solo, sempre più solo, con nella gola un groppo di pianto, attenuato solo dalla speranza di un immancabile ritorno. “La primavera nel mio paese fa presto a venire”, mi ha scritto in una sua lettera.
E ancora altri ricordi: l’avvicinarsi di un’età sempre più matura, sempre più amara; il primo amore; il dolce tormento per un’ora lenta a venire, un’ora annunciata dal tintinnio della campana; l’andare verso la chiesa a vedere lei, genuflessa, intenta a pregare per il loro amore appena sbocciato; riguardare il suo viso, riscontrare il suo sguardo…
E poi la passione, la folle passione dei verdi anni, l’amore bruciante di due cuori appena apertisi alla vita, gli sguardi sempre meno furtivi, le promesse, i giuramenti, i primi struggenti dubbi. E poi ancora le scelte, le necessità della vita.
“Quante lacrime – ricorda il poeta – quante tormentate notti per pensare. Partire, lasciare i miei sogni, abbandonare forse per sempre il mio muro di pietre, i miei grilli canterini, l’usignolo cui faceva eco il mo fischiettare; lasciare la mia casa, e le rondini che al loro ritorno non mi avrebbero più incantato con il loro garrulo via vai per ricostruire un nuovo nido; lasciare la mia luna (non ne ho più rivisto una uguale, ovunque io sia andato); lasciare lei, il mio primo più grande amore, reso ogni giorno, ogni ora più ardente dalle lacrime da noi versate per l’imminente mio distacco…”.
Ed infine, impietosa, la partenza.
Una partenza amara, su un treno di lacrime, su un treno che correva veloce, e che lo portava lontano, strappandolo alla sua infanzia, ai suoi sogni, al suo amore.
Una partenza che segnava l’inizio della disperata lotta per la vita. E per il poeta iniziava a concretizzarsi “l’assurda ineluttabile legge del destino”.
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