Presentazione

(di Armando Orlando)

          

Uno dei principali scopi della mia vita è quello di andare alla ricerca di personaggi umili e sconosciuti che attraverso qualche manifestazione artistica sono riusciti ad esprimere quanto di meglio c’è – o c’è stato – nel loro animo, trasmettendo così alla gente sentimenti, sensazioni, desideri, speranze, delusioni.
Personaggi che, producendo opere di una certa rilevanza culturale, hanno reso onore ai paesi di origine, grazie ai loro scritti, alle loro poesie, ala loro pittura, alla loro musica… in poche parole, grazie alla loro arte.
Personaggi quasi nascosti, che sono vissuti ai margini della cultura cosiddetta ufficiale, che non sono mai voluti salire sul palcoscenico, che non hanno mai voluto seguire le mode, che non sono mai entrati nei circoli e nei giri di quelli che “contano”, che sono spesso ignorati dagli enti pubblici e dalle associazioni che istituzionalmente hanno il compito di approfondire le conoscenza e la diffusione della cultura locale, quella cultura che i critici chiamano “minore” ma che spesso suscita attenzione, considerazione, rispetto da parte della gente comune e del popolo.
Ce ne sono tanti, di questi personaggi, in Calabria come altrove.
Uno di questi è Carmine Augusto Ferrari: personalità travolgente, uomo dinamico, moderno, pieno di idee e di entusiasmo; dall’alto dei suoi 78 anni egli insegna ad essere giovani, insegna ad essere forti ed attivi, insegna a superare gli ostacoli e a non arrendersi mai.
Basterebbe solo questo per fare di Carmine Ferrari un esempio, ma noi vogliamo parlare di lui – ora – per i suoi scritti, per le sue poesie, per questi “brandelli di vita” che testimoniano amore e sofferenza, gioia e dolore, nostalgia e rimpianto.
Ho incontrato varie volte Carmine Ferrari; ho parlato con lui sia in Calabria, dove spesso ritorna come tutti gli emigrati, e sia a Roma, dove vive con la famiglia e dove lavora.
Nel corso di questi incontri abbiamo parlato di tante cose, ma il pensiero correva sempre al paese natìo, ai suoi paesaggi, alle sue colline, ai suoi profumi, ai suoi colori.
Ricordo ancora l’appello accorato che mi ha rivolto per tentare la salvezza della chiesa dei Sette Dolori, uno dei tanti edifici antichi vittima dell’incuria degli uomini e del dilagare del cemento: “Mi piange il cuore a vedere questa vecchia chiesetta sbriciolarsi ogni giorno di più, ed ogni giorno di più vederla allontanarsi dai cari ricordi dei nostri verdi anni!”.
Ed in uno di questi incontri egli mi ha confessato di essere stato sempre ammalato, ammalato di “sammanghesità”. Tanto è stato forte – e lo è tuttora – il suo amore verso il paese natìo, san Mngo d’Aquino.
Utilizzando un’idea cara al mio amico Mario Caligiuri, che ha coniato il termine calabritudine inteso come presa di coscienza e come riscoperta del passato per accingersi a costruire il nuovo, io direi – invece – che Carmine Ferrari è ammalato di sammanghitudine.
Sammanghitudine… Questo termine potrebbe voler dire, prima di tutto, parlare della storia di un paese della Calabria che ha vissuto momenti di grande conflittualità e di violenza, subendo di volta in volta le prepotenze degli ultimi signori feudali, del governo borbonico, della borghesia terriera, dei galantuomini e di una classe politica interessata più alla corsa verso il potere che allo sviluppo ed al progresso della gente.
Ma sammanghitudine significa anche riscoperta delle radici profonde di una terra che ha alle spalle un ricco patrimonio di valori e di cultura; significa presa di coscienza delle proprie tradizioni, della propria storia, dei propri bisogni.
Tutto questo, per costruire un domani migliore. Ed a tutto questo, Carmine Ferrari spera di dare, coi suoi scritti, un valido contributo.

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