IL FIUME SAVUTO

(di Armando Orlando)

Unico fiume tirrenico ad avere le sue sorgenti in Sila, il Savuto appartiene all’altopiano per soli 12 chilometri del suo corso; attraversa foreste di pino, faggio, cerro e castagno, prosegue la sua marcia fino a valle, si tuffa nella macchia mediterranea e nelle terre dei pascoli, e poi sparisce nel mare.
Da sempre il suo corso traccia il confine tra le terre di San Mango e del vicino centro abitato di Savuto, ma – come vedremo – il fiume non ha mai diviso le due comunità: anzi, le ha unite!<
Da espressioni geografiche o delimitazioni confinarie – scrive Cosimo Damiano Fonseca – i fiumi sono divenuti essenziali tramiti di cultura e di civiltà fra centri dell’una e dell’altra sponda, tra il mare e le aree interne: “Vita e morte sembrano indissolubilmente legate allo scorrere dei fiumi, al loro ineludibile intersecarsi con le tormentate vicende delle comunità umane… D’altro canto l’acqua è amica dell’uomo in quanto fonte di vita e mezzo di trasporto, serbatoio di energie e strumento di sussistenza. Ma l’acqua è anche nemica dell’uomo, in quanto essa va combattuta per preservare e proteggere la fertilità dei terreni e per evitare l’erosione del suolo attribuibile alle inondazioni o alla scomparsa della vegetazione delle montagne e delle colline”.
Tutto questo ben si adatta al Savuto, “fiume dalla scarsa fortuna letteraria – scrive Gian Piero Givigliano – , ma con una grande importanza in età classica; infatti, insieme alla più centrale valle del Crati, costituisce il principale asse naturale di collegamento interno fra la Calabria settentrionale e quella meridionale, nel quale il nodo topografico di Cosenza fa da cerniera, e quindi da luogo forte di controllo, fra i due sistemi fluviali”.
Un fiume che molti storici identificano con l’Okinaros, l’Ocinaro che in Licofrone bagna il sepolcro della sirena Ligea. Un fiume  antico, denominato di volta in volta Ares (figlio di Zeus e di Era, che i Latini chiamano Marte, dio della guerra), Eris (dea della discordia, sorella e compagna di Ares nelle battaglie), Sabazio (il dio dalle corna di toro, originario della Frigia, venerato in Grecia e a Roma e identificato spesso con Dioniso); e quindi Sabatus e poi Savuto. Un fiume importante al punto da dare il nome al colle Sabazio, come era chiamato nell’antichità il Piano di Tirena.
Il fiume che, prima di giungere al mare, lambisce Martirano (l’antica Mamers e poi Mamertium; “Martis ara” – ossia “altare di Marte” – osserva Adriano Macchione), e per questo denominato pure “Aquis Martis”: acque potenti come Marte, ovvero acque provenienti da Mamers, da Martirano. Lo stesso fiume che, nella sua corsa verso il Tirreno, lambisce il Piano di Tirena, luogo ricco di fascino perché per gli abitanti di Nocera – scrive sempre Macchione – Terina era i Greci, le spade dei Romani, Annibale, i Saraceni.
Il Savuto è luogo dove termina il mito e nasce la storia: con la città di Temesa avvolta nel mistero, citata da Omero nell’Odissea e sparita nel nulla nelle vicinanze della foce del fiume o, più a nord e verso l’occidente, sulle alture di Serra d’Aiello; e con il Pian della Tirena, nel territorio di Nocera, che custodisce gelosamente nel suo grembo i resti di una città antica, certamente greca, forse fenicia, lambita in tre lati dalle acque di due fiumi e dal mare, tanto da sembrare un’isola.<
Il Savuto – “fiume grosso e navigabile, noto per la gran copia dell’acque”, scrive padre Fiore nel 1691 – è via di comunicazione, ed i due versanti si uniscono nel territorio di Scigliano grazie ad un ponte a campata unica, in pietra, attraversato da Annibale nel 202 avanti Cristo.
Il fiume è importante strada di accesso verso le zone interne, dove gli insediamenti che sorgevano a mezzacosta e sui pianori sono occupati in epoche successive da vari popoli, fino agli Italici, che parlavano la lingua osca e che seppero dare vita ad una propria cultura locale. Attraverso la sua valle i Neolitici penetrano nelle zone collinari e montane e si insediano nelle terre di Nocera, San Mango, Savuto, Cleto, Martirano e Conflenti, mentre il territorio di Falerna, più prossimo al mare, partecipa allo sviluppo della Piana di Sant’Eufemia, ricca di strutture abitative.
Juliette De La Genière, dopo aver ipotizzato l’esistenza di centri abitati nell’area compresa tra Cozzo Piano Grande di Serra d’Aiello, Cleto, Valle del Torbido e Campora S. Giovanni, ci informa che i sentieri lungo il Savuto collegavano la costa tirrenica con la valle del Crati e con la zona di Sibari, e risalendo il fiume si poteva giungere pure alla valle del Neto e a Crotone. Ed il Piano di Tirena, posto allo sbocco del Savuto e del fiume Grande, era un punto d’incrocio delle strade terrestri e marittime.<
Lungo la sua valle scorre per lunghi tratti l’antica strada consolare romana Popillia-Annia, la quale, nelle vicinanze della foce, da via interna diventa litoranea e attraversa gli attuali territori di Falerna e Gizzeria fino a Capo Suvero, passando per sant’Eufemia Vecchia e continuando fino all’Angitola: una strada che, dopo secoli di abbandono, è resa efficiente dai Normanni per motivi militari e viene poi ripresa nel 1774 dal re Ferdinando di Borbone.
Ed è proprio attraverso la valle del Savuto e poi quella del Crati che il generale francese Reynier ripara, con i suoi soldati, nella piana di Sibari, dopo la sconfitta inflitta alle truppe napoleoniche dagli Inglesi nella battaglia di Maida del 4 luglio 1806.
Il Savuto è via di conquista. Sulla sponda destra del fiume, nella località chiamata ancora oggi “Passu du Piru”, i soldati mamertini fedeli ai Romani affrontano e sconfiggono Pirro, re dell’Epiro, sbarcato in Italia nel 281 a. C. per portare aiuto alle colonia greche; ed in quel luogo nel 1690 il principe Tommaso d’Aquino fece porre una lapide nella quale, in latino, veniva ricordata la battaglia, “affinché non si perdesse il ricordo di quell’evento”.
Sulle sue sponde e lungo la strada consolare romana sorge la stazione “Sabbatum flumen”, ed anche per questo Martirano diventa, durante il X secolo, il punto di passaggio delle grandi invasioni saraceniche, nella Calabria interna. Lungo i suoi sentieri transitano i cavalieri normanni che muovono alla conquista del Regno del Sud, e sotto Federico II schiere di Saraceni, risalendo la valle, si spingono verso l’interno e attaccano la popolazione.
A presidio della valle, per rendere le vie inaccessibili ai soldati aragonesi che dalla Sicilia possono portarsi sulle coste della Calabria e mettere in pericolo la dinastia angioina, Carlo conte d’Angiò, nuovo re di Napoli dopo la morte di Corradino di Svevia, fa costruire sulla riva destra del fiume un forte castello, il Castrum Sabatii, i cui ruderi sono visibili ancora oggi e dominano l’abitato di Savuto.
Il fiume è tutto questo. Ma è anche pericolo. L’attraversamento delle sue acque rappresenta per secoli l’unica alternativa alle vie di comunicazione che mancano, ma la grande massa d’acqua è un serio pericolo e spesso le persone cedono alla furia della corrente. Il rischio di finire affogato tormenta la vita di intere generazioni ed il ricordo di quelle tragedie si fissa nella memoria collettiva, dando origine a storie e racconti di altri tempi.
Nella immediate vicinanze del luogo dove, qualche anno prima, era morto Enrico, il figlio ribelle dell’imperatore Federico II, la disgrazia tocca pure la famiglia del re di Francia allorquando, di ritorno da una Crociata in Terra Santa, Filippo III l’Ardito, figlio del re Luigi IX, e la moglie Isabella, figlia del re Giacomo d’Aragona, mentre da Nicastro si recano a Martirano, giunti al Passo del Savuto, si preparano a guadare il fiume, rapido e gonfio per le piogge. La regina Isabella, incinta di sei mesi, spinge il cavallo fra i sassi sdrucciolevoli, viene balzata di sella e cade nelle acque ghiacciate; salvata dall’annegamento, viene trasportata a Cosenza dove, però, perde il bambino. Qualche giorno dopo, il 28 gennaio 1271, muore anche lei. Le sue cani sono sepolte nel Duomo di Cosenza, mentre le ossa, portate a Parigi, sono sepolte nella chiesa di S. Dionigi, assieme a quelle del suocero Luigi IX il Santo.
Sono numerose le persone che nel corso dei secoli perdono la vita nell’attraversamento del tratto di fiume in cui le acque bagnano i territori di San Mango e di Savuto: Virgilio e Pietro Baldascino di Savuto nel 1737, Domenico Lancella di Paola nel 1756, Achille Adamo di San Mango nel 1812, Bruno Nabbotto di Grimaldi nel 1831, Caterina Sacco di San Mango nel 1878… Un racconto di Carmine Ferrari si conclude con Michaela che si avvia lentamente verso il fiume, gonfio d’acqua e limaccioso, che si ingrossa sempre di più e che, rumoreggiando, trascina alberi e rami sradicati lungo la sua folle corsa, fino a quando un’onda più grossa ghermisce la giovane donna, avvolgendola nel suo lugubre manto e trascinandola lontano…
            Il fiume è anche pericolo, e proprio mentre attraversa il Savuto, nella ritirata verso il nord, il generale francese Reynier subisce un agguato da parte della popolazione insorta.
            Il fiume è via di comunicazione, “strumento naturale” per stabilire i contatti. Una via di pace, scrive Folco Quilici, non di guerra, nell’incontro tra genti diverse e non di rado avverse.
            Anche per la gente di San Mango e di Savuto il fiume è stato via di comunicazione per scambi commerciali, per rapporti personali e per relazioni parentali.     
Fino all’Ottocento, nei viaggi e nei trasporti, le vie dell’acqua prevalgono rispetto alle vie di terra e persino per trasportare il grano dalla Puglia a Napoli si preferisce circumnavigare la Calabria.
Le condizioni delle strade sono pessime e nel 1806 l’Università di Martirano ed altre terre limitrofe, in occasione del viaggio del re Giuseppe Bonaparte, pensano di costruire a proprie spese un ponte sul fiume Savuto, nei pressi del Piano di Mario; ma il progetto rimane sulla carta e solo nel 1812, per opera di Gioacchino Murat, viene completata la nazionale napoleonica che taglia la regione da Lagonegro a Villa S. Giovanni.
Nelle acque del Savuto si imbatte pure Craufurd Tait Ramage, il viaggiatore inglese che da aprile a giugno del 1828 inizia un viaggio nel Regno delle Due Sicilie, e dalla frazione Diano di Scigliano parte alla volta di San Mango. Sceso nell’alveo del Savuto – un fiume che “anche a questa stagione l’attraversarlo a cavalcioni sulle spalle della mia guida era un’impresa ardua” – egli prosegue il cammino in maniera agevole per molte ore, fino a giungere in un canalone che “saliva su nelle montagne, un luogo dove i briganti solevano tenersi in agguato”; la guida allora consiglia di “attraversare nuovamente il fiume risalendo su per l’argine opposto e proseguire poi lungo il fitto bosco sull’altra riva”. Ramage raccoglie l’invito, però ammette che “non fu cosa facile arrampicarsi su per l’argine opposto del fiume che era ricoperto di un fitto sottobosco, allarmato anche dal gran numero di vipere e di serpi che andavamo disturbando mentre stavano scaldandosi al sole”.
Il fiume è soddisfazione di bisogni primari attraverso l’approvvigionamento idrico e la pesca, ma – dice Pasquale Versace – nei confronti del fiume l’uomo non si è limitato alla utilizzazione delle acque, ma ne ha occupato in modo sempre più intenso il territorio di pertinenza. “Le aree di pianura e poi, progressivamente, i grandi materassi alluvionali delle aree di deposito sono stati via via occupati da insediamenti agricoli e civili”.
Il Savuto, con le sue acque limpide che scendono impetuose fino al mare, ha reso fertili le due sponde, ed il fiume, con i prodotti della sua terra, ha nutrito e ha dato da vivere ad intere generazioni, alleviando le sofferenze di un’esistenza piena di miseria e di disperazione.
C’è ancora gente che ricorda gli appezzamenti di terreno chiamati “macchie” e coltivati ad ortaggi. E chi non ha in mente la poesia che Eugenio Chieffallo ha dedicato proprio al Savuto? Un vero e proprio inno al fiume, che il poeta vedeva giungere dai “Cannavali” e vedeva poi sparire dietro la curva dei “Vignali”, e in tutto quel tratto c’era il suo mondo di fanciullo. “La valle ti ama come si ama una consorte – dice Chieffallo in dialetto – e per meglio accoglierti stende cento valloni come se fossero braccia… E le migliaia di macchie che tu, o fiume, hai lasciato, con il lavoro sono diventate conche d’oro per questa gente… Come l’edera si attacca al muro, così io, con il pensiero, resto attaccato alle mie macchie… E vedo mille persone al lavoro, curve, da marzo in poi per interi mesi, fino a ottobre, fino a quando salgono a San Mango lasciando un’isoletta che rappresenta il bene di Dio sulla terra”.
Ma le piene, gli allagamenti e gli straripamenti sono frequenti, specialmente al tempo in cui “la Buda era popolata di gente allegra ed al lavor pensosa” (per usare il verso di un altro poeta sammanghese, Antonio Chieffallo); ed allora la natura si riprende il territorio e rende inutile il lavoro degli uomini: i campi spariscono, le frane e gli smottamenti si portano via i tratti delle strade ed il tutto rende precarie le condizioni di vita dei contadini.
La Statistica Murattiana del 1812, ripresa da Umberto Caldora in un libro del 1960, testimonia che “nella pianura di Nocera il Savuto lascia otto lagune che coprono 260 moggia di terreno che potrebbero venir disseccate, mercè l’incanalamento delle acque, e si risparmierebbero agli abitanti dei luoghi finitimi i malori a’ quali li espongono le micidiali esalazioni che tramandano…”.
Il fiume è luogo dove l’uomo non è solo. Neanche di notte, come scrive Antonio Chieffallo nel raccontare un viaggio con l’asinello fatto nel 1956 da Campora a Grimaldi, quando, lasciato all’imbrunire il ponte di Donn’Arrigo, s’infila nella sabbia del Savuto e, raggiunta la mulattiera, oltrepassa le località di Fabiano, Vignali, Piano della Madonna e Vettorello. “Lontane voci, scrive Antonio, si levano dalle case di campagna sparse lungo la valle, ed i fuochi si vedono fino ai paesi di Savuto da un lato e di San Mango dall’altro…”
Lo scorrere delle acque allevia la solitudine e per le genti dei paesi che si affacciano nella valle il fiume è luogo d’incontro e di socializzazione. Lungo le vie dell’acqua corrono i sentieri attraversati da interi nuclei familiari, corrono le mulattiere percorse da asini e muli, corrono i tratturi battuti da pecore e capre.
Il fiume è strumento per la vita e, scrive Pietro De Leo, lungo le vie e i canali, ai margini dei fiumi e dei ruscelli, si moltiplicano i primi motori per l’Occidente, i mulini ad acqua, “segno di dominio e di possesso del territorio”, che rappresentano altresì un luogo favorito di incontro, di ritrovo e di lavoro. “Il mulino – annota De Leo – non solo fu struttura indispensabile per l’alimentazione di una popolazione urbana e rurale che si nutriva prevalentemente di cereali, ma fu anche, nell’immaginario collettivo, al pari delle fonti, luogo in cui si stringevano sodalizi notturni fra diavoli e mugnai che vegliavano nelle lunghe sere aspettando, con l’alba, la fine della propria fatica”.
Il Savuto è luogo di miti e di favole. E’ terreno di sepoltura di Ligea, la sirena trovata morta perché sbalzata dalle onde, o meglio di Ligea la menade: una delle baccanti, sacerdotesse di Dioniso che, invase dal nume, si abbandonavano alla danza in mezzo ai satiri. E’ spazio abitato da gnomi, magare, streghe, lupi mannari, mostri, sampaulari. E’ terra di tesori nascosti, dove vivono galline dalle uova d’oro e dove si trovano anelli fatati. E’ un punto magico che rievoca racconti antichi, narrati dagli anziani nelle sere d’inverno con la famiglia raccolta attorno al focolare.
Il Savuto è luogo di antiche leggende, come quella che parla di Ulisse sospinto dai venti verso la città di Temesa e di Polite, suo compagno, che violenta una vergine del posto e gli abitanti lo uccidono con la lapidazione. L’ombra di Polite, però, comincia a perseguitare i suoi uccisori, i quali, per placare l’ira del demone, costruiscono un tempio in un bosco di ulivi selvatici e vi sacrificano ogni anno una fanciulla. E questo succede fino a quando il pugile Eutimo di Locri, di ritorno da Olimpia dove aveva vinto le olimpiadi, si ferma a Temesa e qui si innamora di una vergine destinata al sacrificio annuale. Inizia la lotta tra il pugile e l’ombra. Vince Eutimo, e il demone sconfitto lascia per sempre Temesa e si butta nel mare fino a scomparire.
Il fiume è luogo di meditazione e di contemplazione. Sulle sue sponde sorgono i romitori degli asceti e le sue vie finiscono spesso per identificarsi con i sentieri dell’anima. E come tutti i sentieri dell’anima in ogni parte del mondo, anche quelli del Savuto portano verso gli edifici sacri: verso la chiesa dell’Assunta presso Savuto e verso la chiesa della Beata Vergine delle Grazie, o Buda, presso San Mango. Luoghi di culto costruiti per le messe domenicali poiché “gli agricoltori han l’uso di fare continua dimora in campagna con case coloniche volgarmente appellate torri”.
Attorno ai luoghi sacri si concentrano gli scambi, si praticano piccoli commerci, si sviluppano relazioni e nascono rapporti familiari che rompono la solitudine e allargano l’orizzonte della vita. E quando il centro abitato di San Mango è staccato dal Feudo di Savuto e diventa autonomo, i Savutani, non potendo più celebrare assieme ai Sammanghesi la festa della Buda e non potendo più frequentare come una volta il Piano della Madonna, si costruiscono una nuova chiesa dalla loro parte del fiume. La leggenda vuole che la Madonna sia apparsa in sogno ed abbia chiesto l’erezione di un nuovo edificio nel territorio di Savuto. Nasce così la chiesa rurale della beata vergine del Soccorso in località Giardino, affidata alle cure degli eremiti Michel’Angelo Arceri di Nicastro, morto nel 1733, Michelangelo Coscarella morto nel 1737 e Pasquale Astorino di Scigliano, morto nel 1816.
Eremiti che frequentano la sponda destra del fiume, nel territorio di Savuto, ai quali si aggiungono gli eremiti che frequentano la sponda sinistra, nel territorio di San Mango: Giovanni di Napoli originario di Martirano, “Romito in S. Maria in Buda”, morto nel 1670; Francesco Bartolotta originario di Falerna, morto nel 1703; Francesco Maletta, morto nel 1749; tutti seppelliti nella chiesa della Buda, nelle immediate vicinanze del fiume.
Luogo di riposo eterno non solo per eremiti, ma per tanti altri uomini e donne scomparsi mentre erano intenti a condurre la loro vita quotidiana: Fabio Manfredi nel 1712; Domenico Lancella nel 1756, “sommerso dalle acque impetuose mentre attraversa il Savuto”; Antonio Briglio Zigrino della Terra di Aiello nel 1823; Raffaele Pagliuso nel 1844, oriundo dei Cannavali; Edoardo Moraca nel 1856, “aggredito di notte nel suo agro detto Buda e perito per morte violenta”; Caterina Sacco nel 1878, morta affogata; Nicola Moraca, figlio di Francesco e di Fortunata Audino, nel 1878; Bruno Marco di Cleto nel 1880.
Le chiese accolgono così le spoglie di gente che nasce e vive nelle sponde opposte del fiume e che al fiume consegnano i resti mortali della loro esistenza terrena.
Ma il Savuto è luogo di riposo pure per il mito, ed in prossimità della foce è esistito per secoli il sepolcro della sirena Ligea, con un’epigrafe, incisa sulla pietra, contenente parole greche che volevano dire: “Muore Ligea che visse cento anni”. L’iscrizione, citata dagli scrittori classici,  è ricordata da Girolamo Marafioti da Polistena (Croniche et Antichità di Calabria, 1601), che dice di averla vista di persona, ed è rimasta nella memoria visiva degli anziani di Nocera fino all’inzio del Novecento.Sacro e profano si incontrano ed il fiume diventa luogo dove si manifesta la religiosità popolare. Lo scorrere delle acque favorisce la nascita delle leggende legate al culto della Madonna. Leggende che si ritrovano da una parte e dall’altra della valle e che narrano di apparizioni divine, di una grande ed improvvisa piena che impedisce agli abitanti di Savuto di giungere per primi nel luogo dell’apparizione, di un tratto di fiume dalle acque miracolose, di fontane che la notte dell’Epifania versano olio al posto dell’acqua (olio destinato ad alimentare la lampada della Vergine), di quadri della Madonna che lungo la via per il centro abitato di Savuto diventano sempre più pesanti… Oggi le cronache ci dicono che la chiesa rurale della Madonna del Soccorso di Savuto, che i devoti chiamano Madonna della Mazzarella, risulta rovinata da un masso caduto dalla roccia a seguito del terremoto del 1905, e che la chiesa di Maria SS. Delle Grazie, che in San Mango assume la denominazione di Madonna della Buda, è stata demolita nel 1965 per lasciare libero il percorso dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria.

E siamo già in un’altra epoca, un tempo in cui i miti non contano più e le favole sono un lontano ricordo.

 

Armando Orlando  


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