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Nel novembre del 1987, concludendo un lavoro che si protraeva da anni, ho dato alle stampe un saggio su Domenico Adamo, un grande poeta calabrese emigrato in America all’inizio del Novecento, un personaggio tanto conosciuto ed apprezzato all’estero quanto dimenticato in patria.

L’occasione mi è stata offerta dalla ricorrenza del primo centenario della sua nascita, e nel chiudere la presentazione del volume così mi esprimevo: “Ora la parola passa agli altri: agli studiosi della letteratura per illustrarne le opere e la poesia, ed alle autorità civili ed amministrative per ricordare una vita ricca di valori e dignità”.

Ad un anno di distanza, solo la prima parte del mio auspicio è stata realizzata, mentre le autorità civili ed amministrative, più volte sollecitate, hanno continuato ad ignorare il personaggio. Ha proprio ragione Giuseppe Neri quando scrive che si sono spesi milioni per la ricerca di politici pronti a rifilare patacche, per cretinerie ferragostane, per feste di piazza col cantante sul palco, per le piroette delle coccodé impegnate nell’ultimo spogliarello finanziato dagli enti comunali… Così come ha ragione Ermanno Olmi, quando dice che in una società con la pancia piena come la nostra, i poeti hanno difficoltà a farsi ascoltare.

“Passò la cometa, ma tutti dormivano…”, ha scritto una poetessa russa!

Ma le difficoltà – ci ricorda sempre Olmi – non possono arrestare né volontà né talento.

Sul piano letterario, dunque, il maggior riconoscimento per l’opera di Domenico Adamo è venuta dal Circolo di Cultura e di Relazioni Internazionali di Villa San Giovanni, dove l’apposita giuria ha inserito il saggio pubblicato l’anno scorso fra i dieci finalisti del Premio Calabria, accanto a volumi di autori prestigiosi come Arrigo Levi, Gaetano Cingari, Gianni Baget Bozzo, Michele Genovese, Giorgio Petrocchi, Italo Borzì ed altri.

L’autorevole giudizio espresso dalla giuria di Villa San Giovanni, formata da critici letterari, professori universitari e scrittori, mi ha spinto ad andare avanti. E raccogliendo l’invito che mi aveva a suo tempo rivolto l’avvocato Felice Manfredi (“Non pensi che sia il caso che si faccia un’accurata ricerca e presentazione per tutti i <<nostri>> che nel lavoro indefesso e nel tormento della lontananza tengono alto il nome di San Mango, e lo rinnovano ogni giorno col loro sacrificio?”), ho deciso di dare oggi alle stampe questo nuovo lavoro, interamente dedicato a Carmine Augusto Ferrari.

 Gennaio 1989 

Armando Orlando

  

INTRODUZIONE

            Uno dei principali scopi della mia vita è quello di andare alla ricerca di personaggi umili e sconosciuti che attraverso qualche manifestazione artistica sono riusciti ad esprimere quanto di meglio c’è – o c’è stato – nel loro animo, trasmettendo così alla gente sentimenti, sensazioni, desideri, speranze, delusioni.

            Personaggi che, producendo opere di una certa rilevanza culturale, hanno reso onore ai paesi di origine, grazie ai loro scritti, alle loro poesie, ala loro pittura, alla loro musica… in poche parole, grazie alla loro arte.

            Personaggi quasi nascosti, che sono vissuti ai margini della cultura cosiddetta ufficiale, che non sono mai voluti salire sul palcoscenico, che non hanno mai voluto seguire le mode, che non sono mai entrati nei circoli e nei giri di quelli che “contano”, che sono spesso ignorati dagli enti pubblici e dalle associazioni che istituzionalmente hanno il compito di approfondire le conoscenza e la diffusione della cultura locale, quella cultura che i critici chiamano “minore” ma che spesso suscita attenzione, considerazione, rispetto da parte della gente comune e del popolo.

            Ce ne sono tanti, di questi personaggi, in Calabria come altrove.

            Uno di questi è Carmine Augusto Ferrari: personalità travolgente, uomo dinamico, moderno, pieno di idee e di entusiasmo; dall’alto dei suoi 78 anni egli insegna ad essere giovani, insegna ad essere forti ed attivi, insegna a superare gli ostacoli e a non arrendersi mai.

            Basterebbe solo questo per fare di Carmine Ferrari un esempio, ma noi vogliamo parlare di lui – ora – per i suoi scritti, per le sue poesie, per questi “brandelli di vita” che testimoniano amore e sofferenza, gioia e dolore, nostalgia e rimpianto.

            Ho incontrato varie volte Carmine Ferrari; ho parlato con lui sia in Calabria, dove spesso ritorna come tutti gli emigrati, e sia a Roma, dove vive con la famiglia e dove lavora.

            Nel corso di questi incontri abbiamo parlato di tante cose, ma il pensiero correva sempre al paese natìo, ai suoi paesaggi, alle sue colline, ai suoi profumi, ai suoi colori.

            Ricordo ancora l’appello accorato che mi ha rivolto per tentare la salvezza della chiesa dei Sette Dolori, uno dei tanti edifici antichi vittima dell’incuria degli uomini e del dilagare del cemento: “Mi piange il cuore a vedere questa vecchia chiesetta sbriciolarsi ogni giorno di più, ed ogni giorno di più vederla allontanarsi dai cari ricordi dei nostri verdi anni!”.

            Ed in uno di questi incontri egli mi ha confessato di essere stato sempre ammalato, ammalato di “sammanghesità”. Tanto è stato forte – e lo è tuttora – il suo amore verso il paese natìo, san Mngo d’Aquino.

            Utilizzando un’idea cara al mio amico Mario Caligiuri, che ha coniato il termine calabritudine inteso come presa di coscienza e come riscoperta del passato per accingersi a costruire il nuovo, io direi – invece – che Carmine Ferrari è ammalato di sammanghitudine.

            Sammanghitudine… Questo termine potrebbe voler dire, prima di tutto, parlare della storia di un paese della Calabria che ha vissuto momenti di grande conflittualità e di violenza, subendo di volta in volta le prepotenze degli ultimi signori feudali, del governo borbonico, della borghesia terriera, dei galantuomini e di una classe politica interessata più alla corsa verso il potere che allo sviluppo ed al progresso della gente.

            Ma sammanghitudine significa anche riscoperta delle radici profonde di una terra che ha alle spalle un ricco patrimonio di valori e di cultura; significa presa di coscienza delle proprie tradizioni, della propria storia, dei propri bisogni.

            Tutto questo, per costruire un domani migliore. Ed a tutto questo, Carmine Ferrari spera di dare, coi suoi scritti, un valido contributo.

 
 

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