LA  CADUTA DELLA REPUBBLICA  NAPOLETANA 

E LA REPRESSIONE BORBONICA

(di Armando Orlando)

 

            Il 2 aprile 1799 la flotta inglese occupa le isole di Ischia e di Procida; le campagne dell’entroterra subiscono il saccheggio da parte di comitive di banditi guidati da uomini come Fra Diavolo, Sciarpa, Mammone e altri, ed il cardinale Fabrizio Ruffo, conquistata la Calabria, è in marcia verso Napoli alla testa dell’armata della Santa Fede.

            “La rivoluzione di Napoli potea solo assicurar l’indipendenza d’Italia, e l’indipendenza d’Italia potea solo assicurar la Francia”, scriveva Vincenzo Cuoco. Ma la Francia non aveva soldati a sufficienza per sostenere la Repubblica Napoletana e per presidiare il Mezzogiorno d’Italia.

            Al Nord della Penisola, 35 mila soldati austriaci e 17 mila soldati russi iniziano la riconquista dell’Italia, ed il 27 aprile 1799 sconfiggono i Francesi a Cassano d’Adda. Due giorni dopo, le truppe austro-russe guidate dal generale Aleksandr Vasilevic Suvorov  entrano a Milano ed i francesi sono costretti a ritirarsi oltre il Ticino. La successiva sconfitta di Macdonald sulle rive della Trebbia segna la fine del dominio francese in Piemonte, ed il 26 maggio cade Torino. Resiste solo la Repubblica Ligure, difesa da un esercito francese agli ordini del generale André Massena. La Repubblica Cisalpina è sciolta ed una serie di sanguinose rivolte colpisce i francesi. Rivolte contro il nuovo corso e contro le riforme, che hanno come protagonisti contadini e artigiani che si ribellano all’aumento dei prezzi e alla crescente disoccupazione; rivolte scoppiate in Piemonte, Lombardia, Veneto e poi Toscana, dove, ad Arezzo, si registra un’insurrezione generale al grido di “Viva Maria”, contornando di un carattere religioso il profondo odio popolare contro i proprietari terrieri.  

            Il generale francese Schérer, per sopperire alla richiesta di truppe da impiegare al Nord, è costretto a chiedere aiuto ai francesi di stanza nel Sud della Penisola. Macdonald ubbidisce e abbandona il Mezzogiorno. La Rivoluzione Napoletana rimane sola. Partiti i francesi, i repubblicani devono fare affidamento sulle proprie forze. “Unico esempio in Italia di un governo repubblicano che sopravviveva anche senza la tutela della Grande Nazione, sorprendendo tutti”, annota Anna Maria Rao.

                Chiamato dal Direttorio di Parigi, l’esercito francese lascia Caserta il primo maggio 1799 e giunge a Roma il 16 maggio. A presidio del territorio partenopeo rimangono 935 soldati francesi al comando del colonnello Méjan, asserragliati in Castel Sant’Elmo, mentre Gaeta è presidiata da 1.506 soldati comandati da Berger e Capua da 2.178 soldati comandati da Girardon.

            Il 13 giugno 1799 l’esercito sanfedista è a Napoli; Sant’Elmo, Castel dell’Ovo e Castel Nuovo resistono. Il 15 giugno il cardinale Ruffo forma una Giunta di Stato per processare giacobini e patrioti, ed il 21 giugno il comandante francese Méjan approva un atto di capitolazione sottoscritto due giorni prima dai comandanti francesi.

            La partenza dell’esercito francese prima, e la capitolazione di Castel Nuovo e di Castel dell’Ovo ora, lasciano sguarnite le province del Regno, Il territorio rimane in balia delle orde della Santa Fede. Alla controrivoluzione segue l’anarchia, con episodi di saccheggio a danno dei possidenti e con distruzione di preziosi documenti d’archivio.

            Finisce così la Repubblica Napoletana del 1799. Un’esperienza unica nel panorama politico italiano di fine Settecento. Un’esperienza capace di accendere speranze di unità dell’intera Penisola. Esperienza unica, perché essa fu imposta, se così si può dire, dai patrioti napoletani allo stesso governo di Parigi; per una serie di circostanze che cerchiamo di riepilogare.

            Dopo la Rivoluzione del 1789, la Convenzione Nazionale francese, abolita la monarchia e proclamata la repubblica, aveva assicurato aiuto e fratellanza a tutti i popoli europei in lotta per la libertà. I patrioti italiani in esilio in Francia avevano creduto a quei principi e durante il triennio giacobino del 1797/1799 in molte regioni d’Italia si erano verificate sollevazioni allo scopo di avviare una vera e propria guerra di liberazione, con l’obiettivo finale di unificare la Penisola e dare la sovranità al popolo.

            Il progetto di unificazione politica dell’Italia comincia a diventare più concreto quando nel 1796 Napoleone libera le regioni del centro-nord e quando nascono nel 1797 la Repubblica Ligure e la Repubblica Cisalpina e nel 1798 la Repubblica Romana. Ma l’unità d’Italia si sarebbe realizzata con la conquista del suo Mezzogiorno e per questo Filippo Buonarroti, commissario francese nella piccola Repubblica Ligure liberatasi dai Savoia, aveva detto: “Se l’Italia è destinata ad essere libera, la vera rivoluzione comincerà sotto il clima ardente del Vesuvio”.

            Al termine della guerra contro la Prima Coalizione, però, la Francia aveva firmato la pace con l’Austria ed il Direttorio non voleva disturbare gli equilibri raggiunti in Europa. Per questo motivo Parigi non vedeva più con favore la nascita in Italia di altre repubbliche “sorelle”. Essa temeva, scrive la Rao, l’azione di quelli che chiamava gli “anarchistes”, democratici radicali che consideravano non ancora realizzati gli ideali di libertà e di uguaglianza, e che pertanto ritenevano ancora valida in Italia la via della rivoluzione.

            Fu così che la Repubblica Napoletana nacque contro la volontà del Direttorio – continua Rao – ma grazie alle sue armi. E per dare alla repubblica un’impronta “nazionale”, accanto alle truppe francesi di Championnet si schierarono gli esuli delle province meridionali, già arruolati nelle legioni delle altre due repubbliche sorelle, Cisalpina e Romana. Per lo stesso motivo, aggiunge la docente universitaria, i patrioti fondarono la Repubblica Napoletana prima dell’arrivo delle truppe francesi, avendo Championnet promesso che lui sarebbe intervenuto a Napoli solo se la città si fosse prima organizzata in repubblica.

            E così fu. Ma il movimento giacobino a Napoli era destinato a scontare fin da subito i suoi limiti.

            La Repubblica Napoletana si era presentata come un fenomeno politico in cui era prevalente il ceto medio, con un carattere essenzialmente intellettuale (lo storico Adolfo Omodeo dice che a Napoli erano giacobini gli uomini di cultura). Inoltre, le diffidenze del Direttorio nei confronti della repubblica sorella e le tendenze moderate di alcuni membri del governo provvisorio napoletano impedivano, di fatto, la realizzazione di riforme radicali. Ecco perché le masse si erano mantenute lontane dagli ideali giacobini, ed ecco perché i contadini delle province, fortemente condizionati dalla religiosità popolare, avevano ubbidito al richiamo del cardinale Ruffo e si erano messi a sperare al seguito dell’Armata della Santa Fede.

            La stessa abolizione dei diritti feudali, realizzata con successo in Francia, a Napoli fu discussa a lungo e fu decisa tardi, quando ormai le popolazioni rurali, in mano alla propaganda degli agenti borbonici, si abbandonavano spesso ad atti di violenza nei confronti degli esponenti della borghesia, da loro identificati con i giacobini, e quindi considerati nemici di classe.

            D’altra parte, la divisione in perpetuo dei demani comunali a favore dei contadini poveri, approvata da Ferdinando di Borbone già nel 1792, non aveva trovato pratica attuazione proprio per la resistenza dei contadini, i quali erano stati costretti a rifiutare la terra a causa della crisi che aveva investito la piccola proprietà; essere titolari di un appezzamento di terreno voleva dire, in quel momento, allargare la base imponibile del fiscalismo regio, e questo, per le classi povere, non era più tollerabile.

            Giuseppe Caridi ci ricorda che in Calabria il processo di democratizzazione della regione fu più diffuso e immediato nella provincia Citeriore, più lento e discontinuo in quella Ulteriore, dove rimasero borbonici tutti i paesi jonici tra Catanzaro e Reggio e tutta l’area prospiciente la costa siciliana, da Reggio a Palmi attraverso Scilla e Bagnara.

            Per questo motivo il cardinale Ruffo, sbarcato nei pressi di Villa S. Giovanni il 7 febbraio 1799, aveva impiegato solo un mese per conquistare il territorio fino a Catanzaro. La Calabria, che più di ogni altra regione aveva bisogno di riforme, era diventata invece una roccaforte borbonica, ed il suo territorio ospitava focolai di resistenza all’ideale repubblicano. Agenti borbonici attraversavano paesi e città per incitare il popolo alla rivolta, i baroni reclutavano armati nelle carceri e l’esercito della Santa Fede diventava sempre più numeroso.

            Non solo briganti, banditi o fuorilegge. “I tredicimila calabresi che seguirono Ruffo a Napoli erano cittadini di una regione povera e costantemente trascurata dai Governi che nei secoli si erano succeduti”, scrive Giovanni Ruffo, il quale aggiunge: “Il condottiero li aveva rivestiti, calzati e armati, non per ricompensarli – già erano retribuiti – ma per dare loro la dignità, per quanto fosse possibile, di veri soldati. Il condottiero, cardinale e principe, ricco e potente, cavalcava alla loro testa, parlava la stessa lingua, respirava la stessa polvere della strada e mangiava lo stesso cibo seduto per terra o su un sasso, come loro. Era sufficiente perché lo venerassero, lo proteggessero, lo seguissero”.

            Mentre i patrioti della Repubblica Napoletana non riuscivano a dare risposte né alla richiesta di soppressione dei tributi baronali e statali avanzata dai contadini nullatenenti, né alla richiesta di controllo dei prezzi avanzata dalle popolazioni urbane, il cardinale Ruffo, lungo il suo cammino verso Napoli, prendeva provvedimenti per la liberalizzazione di alcuni settori dell’economia ed il 13 aprile 1799, per consentire la partecipazione dei civili e dei maestri al reggimento delle Università, apportava modifiche al sistema elettorale allora vigente.

            Anche in Calabria - e forse principalmente in Calabria - i sacerdoti giocarono un ruolo di primo piano nelle vicende del 1799. A Scalea don Biagio Rinaldi, dopo aver chiesto al re di “radunare per ogni dove le Genti a fare a V. M. una secura e valevole difesa”, si mise a capo di un gruppo di contadini ed operò tra Scalea e Paola, fino a partecipare alla conquista di Napoli al seguito del cardinale Ruffo.

            Nelle campagne e nei centri abitati i sacerdoti arruolarono braccianti e boscaioli e li mandarono a combattere una “guerra santa” in difesa delle fede e della tradizione, alimentando così l’odio di classe del “popolo basso” contro i borghesi, contro i giacobini “nemici della religione”.         Ovunque imperversavano ladri e bande di delinquenti. Angelo Paonessa detto Panzanera, Arcacangelo Scozzafava detto Galano, Lorenzo Benincasa, Francesco Muscato detto Bizzarro, Paolo Mancuso detto Parafante, Michele Pezza detto Fra’ Diavolo, Nicola Gualtieri detto Panedigrano, a capo di comitive di banditi, scorrevano le campagne ed erano i padroni del territorio.

            In questo contesto, la lotta dei ceti poveri finì per essere la base sulla quale i Borbone basarono la campagna reazionaria finalizzata a cacciare i francesi dal Regno, ed i contadini finirono per identificare nei galantuomini i loro nemici; e siccome la parola galantuomo era diventata sinonimo di giacobino, per le masse popolari fu facile schierarsi dalla parte del Re e seguire così le armate del cardinale Ruffo.

            E mentre a Napoli la malavita organizzata si confondeva con i “lazzaroni” del Cardinale, nelle province il popolo minuto, in preda alla fame, cominciò ad agire contro l’autorità pubblica, si rifiutò di pagare i tributi, occupò mulini e si abbandonò ad atti di anarchia e di violenza. In Calabria, episodi di resistenza popolare e disordini si registrarono a San Pietro di Amantea, Nicotera, Martirano, Mormanno, Gasperina, Isca. La città di Cosenza è attaccata da contadini dei Casali organizzati in bande; Tropea si rivolta e chiede patti agrari meno onerosi e l’esclusione dei nobili e dei civili dal parlamento cittadino.

            Fu un periodo di anarchia durante il quale anche in Calabria la confisca dei beni dei giacobini e il sequestro dei feudi dei signori che non erano presenti nella regione furono all’ordine del giorno. A farne le spese furono, fra gli altri, il principe della Rocca Filomarino, il duca Doria, la marchesa di Squillace, il barone Luigi Sanseverino, la famiglia Poerio, il principe Montemiletto, il duca Pignatelli di Monteleone, il principe Tommaso Giannuzzi, il duca Caracciolo Fonseca, il principe Borghese, il duca Clemente Catalano Gonzaga, la principessa Chiara Spinelli. Un periodo durante il quale molti sanfedisti entrarono in possesso di terre feudali e molti cittadini salirono nella scala sociale, dando vita ad un nuovo ceto che portava i nomi di Del Pozzo, Mancini, Dominicis, Dardano, Giunti, Toscano, Barberio, Andreassi, Vitali, Abbate, Barracco, Drammis, Lacquaniti.

            E’ opinione diffusa che il cardinale Ruffo fece ogni sforzo per proibire o punire gli eccessi dalla sua azione bellica, e confermò questa sua condotta nel concedere particolari condizioni di resa ai repubblicani sconfitti. Ma in quella stagione di completa anarchia, durante la quale le componenti sociali sembravano impazzite, le terre della Repubblica Napoletana stavano assistendo all’esplosione di un forte contrasto fra borghesi e contadini. E non solo. Alimentati dalla confusione e dal disordine amministrativo e militare, scoppiavano tanti altri piccoli conflitti tra gruppi sociali diversi, tra città e campagne, tra capitale e province, tra le varie municipalità, tra nuclei familiari e, a volte, tra i membri stessi di una sola famiglia. Una situazione sotto diversi aspetti incontrollabile, una lunga storia di corruzione, miseria morale, egoismi, di beni dilapidati, famiglie rovinate, cittadini innocenti coinvolti in episodi di vendetta covata lungamente ed in silenzio; eventi che crearono ulteriore divario fra i ceti sociali ed allungarono la distanza fra le classi.

            Eventi tragici e dolorosi, che non furono superati nemmeno dal Trattato di Resa di Castel Nuovo e Castel dell’Ovo. Il documento, firmato a Napoli il 19 giugno 1799 dai generali Massa e Aurora, comandanti dei due castelli, dal cardinale Ruffo, Vicario generale del regno, da Antonio Micheroux, ministro plenipotenziario del re delle Due Sicilie presso le truppe russe, da E. I. Foote, comandante navale inglese, da Baillie, comandante le truppe russe, da Acme, comandante le truppe ottomane, fu approvato il 21 giugno dal generale francese Méjan, comandante del Castello di Sant’Elmo.

            Il primo articolo del Trattato stabiliva che “I Castelli Nuovo e dell’Uovo saranno rimessi nelle mani del comandante delle truppe di S. M. il Re delle due Sicilie e di quelle de’ suoi Alleati il Re d’Inghilterra, dell’Imperatore di tutte le Russie e della Porta Ottomana, con tutte le munizioni  da guerra e da bocca, artiglieria ed effetti di ogni specie esistenti ne’ magazzini, di cui si formerà l’inventario da’ Commissari rispettivi, dopo la firma della presente capitolazione”.

            Nel frattempo il cardinale Ruffo aveva nominato la prima Giunta di Stato e l’organismo si preoccupò di chiedere al Re l’applicazione degli accordi stabiliti nell’atto di capitolazione.

            L’articolo tre del Trattato stabiliva che “le guarnigioni usciranno cogli onori militari”; l’articolo quattro che “le persone e le proprietà mobili e immobili di tutti gli individui componenti le due guarnigioni saranno rispettate e garantite” e l’articolo cinque che “tutti i suddetti individui potranno scegliere di imbarcarsi sopra bastimenti parlamentari, che saranno loro preparati per condurli a Tolone o restare a Napoli, senza essere inquietati essi, né le loro famiglie”.

            Le cose, invece, andarono diversamente, perché la regina Maria Carolina, appena saputa la notizia della capitolazione, si dispose per la vendetta e chiese a Lady Emma Lyons, moglie dell’ambasciatore inglese a Napoli Sir William Hamilton, di intervenire presso l’ammiraglio Orazio Nelson. Il 21 giugno da Palermo partirono Nelson, l’ambasciatore Hamilton e la moglie Lady Emma (che di Nelson era l’amante), ed il 24 giugno la flotta inglese gettò l’ancora nel Golfo di Napoli. Hamilton informò il cardinale Ruffo che Nelson “disapprova interamente” la capitolazione sottoscritta ed il 25 giugno la regina scrisse una lettera nella quale chiese che “Nelson deve trattare Napoli come tratterebbe una città ribelle dell’Irlanda”. Il 28 giugno i poteri militari passarono dal Vicario generale Fabrizio Ruffo all’ammiraglio inglese Nelson.

            Il Trattato di Resa firmato il 19 giugno divenne allora carta straccia, e nelle carceri furono richiuse migliaia di persone: Vincenzo Cuoco testimonia che furono arrestate persino fanciulle di cinque anni e che furono mandati all’esilio fanciulli di dodici o tredici anni. Furono condannati a morte tutti coloro che avevano seguito la Repubblica, e per morire bastava aver portato addosso la coccarda tricolore.

            I membri della Giunta nominata da Ruffo manifestarono il loro dissenso e si dissero contrari alla persecuzione: solo Angelo di Fiore, divenuto uditore a Catanzaro, condivideva l’azione repressiva della monarchia. Ma le proteste furono inutili, ed alle cinque del pomeriggio del 29 giugno 1799 Francesco Caracciolo, ammiraglio di armata, nato a Napoli, odiato dalla regina, invidiato da Acton, fu impiccato sulla fregata Minerva. Nelson stesso decise che bisognava “lasciarvelo sino al tramonto del sole, e poi far levare il cadavere e gittarlo in mare”. Gli stessi ufficiali inglesi chiesero invano a Nelson la fucilazione al posto dell’impiccagione, ma l’ammiraglio fu irremovibile e consumò fino in fondo il suo odio nei confronti di uno dei più valorosi uomini d’armi di quel tempo. 

            Cadde nel vuoto la stessa richiesta di rispettare i patti sottoscritti, presentata al re Ferdinando di Borbone dal cardinale Ruffo con lettera del 2 luglio 1799 (…Desolazioni, crudeltà, delitti sono inseparabili dalle guerre civili, ma non appena i popoli ritornano obbedienti, aspettano di trovare presso il Principe grazia e clemenza; violazioni di trattati e versamenti di sangue macchiano la Monarchia; il Nelson, violando la capitolazione, ha recato danno alla dignità della Corona e alla buona opinione dei compagni di Guerra).

            Dopo la capitolazione di Castel Nuovo e Castel dell’Ovo, rimanevano nelle mani dei francesi Sant’Elmo, Capua e Gaeta. L’11 luglio il comandante francese Méjan firmò la capitolazione di Castel Sant’Elmo e consegnò agli Inglesi i patrioti italiani accorsi nel castello per sfuggire alla ferocia delle truppe filo borboniche. Il 21 luglio fu nominata una nuova Giunta di Stato, alla quale furono chiamati personaggi che si resero celebri per la violenza della repressione. Il 27 luglio a Capua si arresero 2.500 uomini tra francesi, polacchi e italiani cisalpini. Il 31 luglio cadde Gaeta, ultimo baluardo di resistenza repubblicana contro il ritorno dei Borbone; i soldati francesi potevano rientrare in Patria; i patrioti italiani, invece, furono incatenati e condotti in prigione a Napoli.

            Il 5 agosto Ferdinando di Borbone lasciò le acque del Golfo e partì alla volta di Palermo, e a Napoli iniziarono i processi, condotti da due tribunali staordinari, la Giunta di Stato e la Giunta Militare.

            Il 20 agosto viene condotto al patibolo Gennaro Serra dei duchi di Cassano, figlio cadetto di una famiglia genovese stabilitasi in Calabria; 27 anni, ufficiale dell’esercito repubblicano, Gennaro passa davanti al Palazzo di famiglia, al Monte di Dio a Napoli, assieme ad altri sei condannati, ed i fratelli più piccoli assistono al suo passaggio; il portone del palazzo è chiuso in segno di lutto, e da allora non sarà mai riaperto, se non per un solo giorno, nel 1999, in occasione delle celebrazioni per i duecento anni della nascita della Repubblica Napoletana. 

            Le disposizioni che il Re aveva lasciato erano precise: “Sono dichiarati rei di lesa maestà in primo capo, e perciò degni di morte, tutti coloro che hanno occupato i primari impieghi della sedicente repubblica”, al pari di “tutti coloro che avessero assistito all’innalzamento dell’albero nella piazza dello Spirito Santo il 9 febbraio o alla festa nazionale del 19 maggio in cui si lacerarono le bandiere reali ed inglesi, prese agl’insorgenti”.

            Ferdinando di Borbone, che dal 10 luglio al 5 agosto aveva assistito alla repressione a bordo di una nave ancorata nel golfo di Napoli, senza mettere piede a terra, aveva preparato personalmente la lista dei personaggi da colpire ed aveva dato ordine di “punire i colpevoli con la morte, i minori con la prigionia o l’esilio, tutti con la confisca”.

            Si scatenò allora a Napoli una vera e propria caccia all’uomo. La Giunta emanava le sentenze ogni giovedì, le faceva pubblicare il venerdì e le faceva eseguire il sabato di ogni settimana. Secondo alcune fonti, i processi furono circa 8.000, e tra la fine di giugno 1799 e l’inizio di settembre 1800 solo a Napoli furono giustiziati intorno a cento patrioti.

            La classe media perde sul patibolo i suoi esponenti migliori. Una reazione che forse non ha pari nella storia, scrive Benedetto Croce: uccisi, incarcerati o cacciati dal paese sacerdoti, gentiluomini, generali, ammiragli, letterati, scienziati, poeti, filosofi, giuristi, nobili. Le condanne non risparmiano alcun ceto sociale: dalla prima nobiltà d’Italia agli ecclesiastici (30 vescovi), dai funzionari statali (20 magistrati) agli avvocati, ai medici e agli uomini di lettere.

            A questo tributo di sangue, versato in nome dell’indipendenza nazionale e della libertà, hanno dato il loro contributo molti calabresi.

            Agamennone Spanò di Reggio Calabria, comandante della Guardia nazionale, va incontro alla morte a Ischia il 19 luglio 1799, assieme al generale Giuseppe Schipani dei duchi di Diano. Pasquale Assisi di Cosenza, ufficiale di fanteria, è giustiziato a Napoli il 14 ottobre. Francesco Grimaldi, nato a Seminara, generale della Repubblica, è giustiziato il 22 ottobre assieme a Onofrio De Colaci di Parghelia, magistrato. Luigi Rossi, di Montepaone, avvocato e giudice della Commissione Militare napoletana, autore delle parole dell’inno della Repubblica, è giustiziato l’8 novembre 1799. Pasquale Baffi, un italo-albanese che si era formato al Collegio di S. Benedetto Ullano, uno dei più eruditi uomini d’Italia, professore universitario di lingua e letteratura greca, membro dell’Assemblea legislativa alla quale era stato conferito il governo della Repubblica Napoletana, condannato a morte assieme a Mario Pagano, Domenico Cirillo e Eleonora Pimentel Fonseca, è impiccato l’11 novembre. Domenico Bisceglie, avvocato, uno dei 25 componenti del governo provvisorio della Repubblica, sale sul patibolo il 28 novembre, assieme a Vincenzo De Filippis di Tiriolo, professore di matematica all’università di Bologna, Giuseppe Logoteta di Reggio, avvocato, Gregorio Mattei di Montepaone, magistrato. Pietro Nicoletti di Rogliano, impiegato, è giustiziato il 3 dicembre. Andrea Mazzitelli di Parghelia, capitano di fregata, è giustiziato l’8 febbraio 1800. Carlo Muscari, avvocato di Sant’Eufemia d’Aspromonte, muore sul patibolo il 6 marzo 1800.

            L’abate Antonio Jerocades, tornato a combattere per la Repubblica, è condannato ed esiliato in Francia; tornato a Parghelia nel 1801, muore dopo due anni. Michele Torcia, discepolo di Genovesi e collaboratore del giornale “Monitore napoletano”, è costretto all’esilio prima a Marsiglia e poi a Parigi. Giuseppe Raffaelli, avvocato, presidente della Commissione Legislativa della Repubblica Napoletana, è costretto a fuggire prima a Torino e poi a Milano, dove copre la cattedra lasciata libera da Cesare Beccaria.  

            Il bilancio finale è agghiacciante: 120 giustiziati, 1.251 condannati, 40.000 cittadini richiusi nelle diverse prigioni del Regno su ordine di Nelson, senza contare il numero degli esiliati e dei fuorusciti. Nel Nord, ha scritto Stuart J. Woolf, la sconfitta dei giacobini consolidò il potere dei proprietari fondiari moderati; nel Sud i giacobini (o meglio, i “patrioti”), non lasciarono altra eredità che il loro martirio.

            E mentre in Italia si consuma l’eccidio dei giacobini, il generale francese André Massena sbaraglia le truppe austro-russe a Zurigo (26 settembre 1799) ed il comandante russo Suvorov si ritira dalla guerra. L’invasione della Francia da parte degli eserciti della Seconda Coalizione è scongiurata. Napoleone Bonaparte, reduce dall’Egitto, approda a Fréjus il 9 ottobre 1799 e subito dopo rientra a Parigi, dove prepara un colpo di stato che abbatte la repubblica e affida il potere esecutivo a tre Consoli.

            Finisce così anche il Francia la Grande Rivoluzione, che aveva portato la borghesia a imporsi come classe dirigente, ed inizia la dittatura di Napoleone, destinata a durare fino a quando l’imperatore si dimostrerà capace di assecondare lo sviluppo della nuova società francese.

Armando Orlando

 

© Sanmangomia.it - Webmaster: Pasquale Vaccaro