E VENNE IL TEMPO DELLE RIVOLTE
(di Armando Orlando)
Dopo un’interruzione durata tre numeri della rivista inizio questo 45° capitolo della storia della Calabria con un aneddoto, perché l'episodio (raccontato da Salvatore Settis) è ricco di significato.
Carlo III di Borbone, appena proclamato re di Napoli, promosse gli scavi di Ercolano e di Pompei ed un giorno, nel corso di una visita ai lavori, volle prendere un anello antico, che per anni portò sempre al dito. Ma quando nel 1759 il sovrano diventò re di Spagna e lasciò al figlio il regno di Napoli, davanti alla corte, il giorno della partenza, Carlo si levò l'anello dal dito, lo diede al successore e gli disse: "Questo anello appartiene al re di Napoli, non al re di Spagna". L'anello, annota Settis, è ancora a Napoli, al Museo Nazionale.
La monarchia napoletana, che nel 1744 aveva respinto l'invasore austriaco (alleata, si, alla Spagna, ma con valido sostegno di forze proprie. scrive Benedetto Croce), cominciava a prendere corpo e nello stesso tempo tornava vecchia idea, quella dell'autonomia del regno di Napoli, del Regno, come fu chiamato per antonomasia. Un’idea che per ora rimaneva un lontano desiderio, dice ancora Croce, non capace di farsi proposito e volontà sotto l'impero del diritto pubblico, che allora vigeva in Europa, e nelle condizioni particolari del Regno di Napoli, dove bisognava, anzitutto, formare la "nazione".
"L'indipendenza si ottenne, spiega infatti lo studioso di Pescasseroli, non per sollevazione o altra asserzione di volontà fatta dai napoletani stessi, si invece perché largirla piacque a coloro che amministravano il diritto pubblico di Europa, segnatamente ad una donna italiana, Elisabetta Farnese, che volle che il suo figliolo Carlo avesse un regno, e glielo fece acquistare con trattati e conquistare dalle armi di Spagna e difendere poi con l'aiuto delle stesse armi, e fornì all'uopo i mezzi finanziari...". Proprio per questo a Siviglia Elisabetta aveva salutato il figlio che partiva per l'Italia con una frase: "Le Due Sicilie, alzate a libero regno, saranno tue. Va e vinci, la più bella corona d'Italia ti attende". E quando l'indipendenza piovve come dal cielo, conclude Croce, il contento fu grande.
"Napoli mia, sarai più bella" esclamarono allora i napoletani. In una lettera del 1754 Genovesi scriveva: "Amico, cominciamo anche noi ad avere una Patria, e ad intendere quanto vantaggio sia per una nazione avere un proprio principe. Interessiamoci all'onore della nazione. I forastieri conoscono, e il dicono chiaro, quanto potremmo noi fare, se avessimo migliori teste... Ma, se noi non ci svegliamo, noi non otterremo ciò che vogliamo". E Filangieri, nel presentare la sua opera, diceva che "la gloria dell'uomo che scrive è di preparare i materiali utili a coloro che governano".
Ecco perché l'episodio dell’anello è significativo; esso aiuta a capire perché i napoletani non considerarono più straniera la nuova dinastia e perché assegnarono al regno di Carlo un carattere che gli storici hanno definito “domestico”. Dopo la partenza del re per la Spagna, però, tutto si interrompe ed i sessantacinque anni di regno di Ferdinando IV si svolgono fra riformismo, rivoluzione e restaurazione.
Sono tempi in cui la monarchia degli Asburgo è nel pieno del suo fulgore. I domini si estendono dal Po al Danubio, dalla Boemia ai Balcani e comprendono tedeschi, slavi, latini e magiari. Vienna è uno dei grandi centri dove si decidono le sorti dei popoli europei e la città condivide il primato con la Parigi dei Borbone.
Ed è proprio con i Borbone di Francia che gli Asburgo cercano l’alleanza, per contrastare quel Federico II il Grande che era riuscito a fare della Prussia il perno della politica internazionale europea. Un’alleanza che viene cementata con il matrimonio dell’arciduchessa Maria Antonietta, figlia di Maria Teresa d’Austria, con il delfino di Francia, futuro Luigi XVI, e quando la figlia dell’imperatore asburgico lascia Vienna per partire alla volta di Parigi la madre così la saluta: “Addio, figlia mia, ci separerà una grande distanza. Sii così generosa con il popolo di Francia da fargli dire che gli abbiamo mandato un angelo”.
Il corso degli avvenimenti prese una piega diversa da quanto desiderato dalla sovrana austriaca, ma le vicende di queste dinastie e di questi regnanti si intrecciano con la storia d’Italia e con quella della nostra regione. E tutto ha inizio nel 1789, un anno ricco di avvenimenti grandi e piccoli, destinati a segnare la storia del mondo.
All’alba del 28 aprile di quell’anno, su una nave della Royal Navy britannica diretta a Tahiti, la Bounty, scoppia un ammutinamento. Lo capeggia l'ufficiale Fletcher Christian, che il giorno prima aveva avuto una violenta discussione con il capitano William Bligh. L'ammutinamento riesce. Il capitano e diciotto marinai vengono abbandonati al loro destino a bordo di una piccola imbarcazione che, incredibilmente, dopo quarantotto giorni di navigazione approda a Giava, l'odierna Giakarta. Gli ammutinati, invece, trovano rifugio su un'isola, dove hanno rapporti con donne del luogo e nascono dei figli, ma, con l'eccezione di uno solo di loro, finiscono per essere trucidati dai servi indigeni. Questa è la vera storia degli ammutinati del Bounty, che trovarono riparo e perirono su una piccola isola del Sud Pacifico,dove ancora oggi esistono i loro discendenti.
Lo stesso anno, mentre in Francia i falegnami di Versailles predispongono la sala dove si sarebbero riuniti qualche settimana dopo gli Stati generali, si apre a New York il primo Congresso degli Stati Uniti d’America. Giunge così alla naturale conclusione un processo iniziato nel 1787, quando tredici Stati confederati dell’America del nord rinunciano alla loro sovranità e accettano una costituzione che riconosce il valore giuridico della sovranità superiore dell’insieme del popolo americano. E’ il 4 marzo 1789 e poco tempo dopo, il 30 aprile, George Washington, eletto dal congresso Federale, presta giuramento come primo presidente degli USA, mentre Philadelphia si avvia a diventare la capitale temporanea della nuova nazione.
Il 5 maggio 1789 si aprono a Versailles gli Stati generali, un’antica assemblea di rappresentanti eletti dai tre ordini in cui era divisa allora la Francia: nobiltà, clero e terzo stato; a quest’ultima categoria appartenevano la borghesia e tutto il resto del popolo minuto delle città e delle campagne. Poco tempo dopo, il 14 luglio, verso sera, in una Francia ammalata e piegata sotto il peso della crisi economica e finanziaria, il popolo di Parigi prende d’assalto la Bastiglia.
Il re Luigi XVI chiede: “E’ una rivolta?”. “No, sire – gli rispondono – è una rivoluzione”. E la rivoluzione scuote la dinastia imparentata con gli antichi Capetingi e abituata a regnare da tre secoli sulla Francia. E’ l'inizio della fine di un regime che garantiva privilegi a 350 mila nobili e 120 mila ecclesiastici, mentre il resto della popolazione, circa 25 milioni di cittadini (borghesi, artigiani, operai e contadini) stentava ad andare avanti.
Nel municipio di Parigi nasce il primo nucleo della futura Guardia Nazionale, al comando del generale Marie-Joseph La Fayette (lo stesso che aveva combattuto a fianco delle colonie americane per l'indipendenza dalla Gran Bretagna), ed i membri del Terzo Stato, costituiti in Assemblea Nazionale, proclamano la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, rifacendosi ai principi della Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti d'America approvata dal Congresso di Filadelfia del 1776.
La Rivoluzione cancella i privilegi aristocratici ed ecclesiastici dell’antico regime feudale e abolisce la monarchia assoluta, e ben presto le idee di libertà, fraternità e uguaglianza varcano i confini della Francia e raggiungono pure l’Italia.
Nel regno di Napoli la morte di Domenico Caracciolo, vicerè di Sicilia e poi primo ministro a Napoli (l'ultimo dei primi ministri chiamati a guidare il processo di riforme, dopo Tanucci ed il marchese della Sambuca) e il contemporaneo scoppio della rivoluzione francese oltre le Alpi, segnarono, scrive Silvio de Majo, una svolta nella politica dei sovrani e nella seconda metà del 1789 il Regno assistette al passaggio dal riformismo al sempre più marcato conservatorismo e ad una bieca reazione contro i nemici, veri e presunti, della nazione e della monarchia. Il cambiamento politico, continua De Majo, fu dovuto alla grave crisi interna e internazionale collegata alla Rivoluzione Francese, che indusse i sovrani ed i ministri napoletani prima ad assicurarsi una certa pacificazione con la Chiesa e poi a cercare il pieno appoggio dell'aristocrazia, e già nel 1791 si verificarono i primi segni del distacco della Corte dagli ambienti culturali illuministici napoletani.
Lo sbocco naturale di questa inversione di tendenza nella politica interna del Regno fu la nomina a primo ministro di John Francis Edward Acton, il quale già controllava i dicasteri degli Affari esteri, della Guerra, della Marina e del Commercio. Ed i risultati non si fecero attendere. Il 30 settembre 1789 Ferdinando promulgò un editto contro la massoneria, non più protetta dalla regina Maria Carolina, e pochi mesi dopo furono espulsi da Napoli alcuni funzionari di origine francese, impiegati nell'esercito napoletano in qualità di istruttori militari. Il rapporto con l'Austria divenne, a quel punto, esclusivo, e per fronteggiare il pericolo francese la Napoli dei Borbone legò il suo destino alla Vienna degli Asburgo.
Per vincolare saldamente le relazioni fra i due Stati, nell'estate 1790 Ferdinando di Borbone e Maria Carolina accompagnarono personalmente nella capitale imperiale austriaca le figlie Maria Luisa Amalia e Maria Teresa, sposate rispettivamente con Ferdinando granduca di Toscana e con Francesco (futuro imperatore dal 1792), entrambi figli di Pietro Leopoldo Asburgo-Lorena, che proprio nel 1790 aveva lasciato la Toscana per cingere la corona imperiale, visto che Giuseppe, figlio di Maria Teresa regina di Boemia e d’Ungheria e di Francesco Stefano duca di Lorena, era morto senza eredi.
In un primo momento lo scoppio della rivoluzione francese non aveva preoccupato la corte napoletana, ed i sovrani tornarono a Napoli dopo mesi di assenza. Lungo il viaggio di ritorno, nell'aprile 1791, si fermarono a Roma ed avviarono con lo Stato Pontificio una fase di avvicinamento, resa necessaria, dopo un lungo periodo di freddezza tra le due Corti, per resistere alla diffusione delle idee rivoluzionarie.
Ma con l’affermarsi della Repubblica in Francia nel 1792 e con la proclamazione, nello stesso anno, della "guerra rivoluzionaria" volta alla liberazione di tutti i popoli dal dispotismo, dalle ingiustizie e dai privilegi, la situazione era cambiata, e mentre negli ambienti intellettuali napoletani vicini alle idee della rivoluzione si accendevano le speranze, nella mente di Ferdinando di Borbone e di Maria Carolina d'Austria aumentavano le preoccupazioni.
Nel 1792 Ferdinando rifiutò di riconoscere il barone Armando Mackau come rappresentante della Francia a Napoli. Una squadra della flotta francese nel Mediterraneo, affidata all'ammiraglio Latouche Tréville, fece la sua apparizione nel golfo di Napoli ed il sovrano borbone fu costretto ad accettare la deposizione del re di Francia e a riconoscere la repubblica francese nata dalla rivoluzione.
La minaccia di un bombardamento sulla città convinse il sovrano a collocare il regno di Napoli su una posizione di neutralità nell’ambito delle vicende belliche europee, ma la morte sul patibolo del re di Francia Luigi XVI, il 21 gennaio 1793, ed il timore della regina Maria Carolina per la sorte della sorella Maria Antonietta, giustiziata anch'essa in ottobre, furono avvenimenti che spinsero la corte napoletana a rompere l'accordo con la Francia e a stipulare un trattato segreto con l'Inghilterra. Tutti i cittadini francesi che risiedevano nel regno di Napoli furono espulsi e fu decretato l'embargo totale per le navi e le merci provenienti dalla Francia. A settembre la flotta inglese guidata dall'ammiraglio Nelson giunse a Napoli ed il re Ferdinando affidò la sua dinastia alla forza del regno d'Inghilterra.
Sul piano interno fu ordinata una leva di 16.000 uomini e furono rafforzate le misure di sicurezza allo scopo di impedire la diffusione delle idee rivoluzionarie, ostacolare la nascita di associazioni giacobine e creare le condizioni per reprimere le rivolte. Il pensiero illuminista napoletano, legato fin dall’origine al riformismo espresso dai sovrani, si stacca dalla monarchia borbonica e nel Regno si crea una frattura, con borghesia e ceto intellettuale e progressista da un lato, nobiltà e ceto governativo dall’altro.
Intanto le strutture economiche della società napoletana si stavano modificando. Per i mutamenti intervenuti nei rapporti di proprietà delle campagne, scrive Aurelio Lepre, ma anche per le difficoltà sempre maggiori che avevano colpito l'istituto dell'annona, spingendo il governo ad una certa liberalizzazione del commercio interno. La grave carestia del 1764 aveva accresciuto nelle masse popolari il timore della fame ed aveva spinto la gente delle province a disboscare un'immensa quantità di terreno, per estendere le culture. Ma la forte resistenza della classe baronale, continua Lepre, e la difficoltà di dare avvio a mutamenti radicali in una situazione di generale arretratezza qual era quella napoletana, avevano fatto sì che molte riforme erano rimaste allo stato di progetto, mentre altre non ebbero attuazione piena.
Mentre i riformatori moderati proponevano soluzioni graduali da realizzare in collaborazione con la monarchia regnante, i giovani cominciavano a guardare alla Francia e alla sua rivoluzione, e a Napoli, dove gl'ingegni si erano messi in corrispondenza con le società patriottiche francesi e dove i più giovani e ardenti, scrive Benedetto Croce, stavano trasformando le logge massoniche in club giacobini, il governo inaspriva i provvedimenti già adottati contro la diffusione delle associazioni.
La miseria nelle campagne cresceva. Le agitazioni contadine locali e la polemica dei riformatori avevano spinto il governo borbonico ad un tentativo di riforma agraria, che fu effettuato con la prammatica del 1792 sulla divisione dei demani. Ma la tensione esistente nelle province, dovuta sia alle prime manifestazioni di lotta per la terra sia alla condizione di estrema miseria e di fame nella quale vivevano larghi strati della popolazione rurale, ebbe l'effetto di rendere assai prudente l'azione del governo. Per quanto riguardava il latifondo e l'assenteismo dei feudatari, scrive Aurelio Lepre, il sovrano non volle adottare misure energiche contro i baroni, preferendo agevolare e sostenere il processo di una loro trasformazione in grossi proprietari borghesi, senza affrontare il rischio di riforme radicali.
Così facendo, il governo borbonico era riuscito ad evitare lo scoppio violento di una crisi all'indomani della Rivoluzione Francese, ed aveva operato per trovare un punto di equilibrio tra le diverse spinte locali: l’aspirazione della borghesia agraria alla piena autonomia economica, la resistenza al cambiamento messa in campo dalla classe baronale e la crescente insofferenza dei contadini
Ma la crisi della piccola proprietà aveva aggravato le condizioni generali delle campagne in tutte le province del regno e Ferdinando di Borbone non era più disposto a raccogliere gli appelli dei riformatori; le preoccupate relazioni dell'ambasciatore veneto Alberti venivano confermate dalle proteste che, sempre più numerose, arrivavano alla Corte napoletana. Catanzaro aveva chiesto la convocazione di un parlamento per nominare i rappresentanti da inviare a Napoli allo scopo di esporre le misere condizioni di vita dei suoi cittadini. Bagnara aveva protestato perché la Cassa Sacra incrementava la disoccupazione; e alla cittadina si erano unite Reggio, S. Onofrio, Stilo. Il vescovo di Mileto aveva chiesto la restituzione dei beni espropriati per alleviare le sofferenze del paese; il vescovo di Oppido aveva fatto presente lo spopolamento della diocesi.
Già all’indomani dello scoppio della rivoluzione in Francia la Corte borbonica viene informata dell’esistenza in Calabria di una congiura antigovernativa. Un consigliere del re, Luigi de’ Medici, viene inviato a visitare la regione e, a conclusione dell’inchiesta, tranquillizza il sovrano scrivendo che “a riserbo di pochi, le attuali rivoluzioni d’Europa dalla parte maggiore affatto s’ignorano”.
Ma le idee di uguaglianza portate avanti dalle sette massoniche avevano contaminato anche la Calabria e Giuseppe Maria Galanti, nel corso di un’altra visita, nel 1792, era arrivato a proporre la creazione di apposite Società Patriottiche allo scopo di incanalare il dissenso e coinvolgere gli intellettuali nei progetti di riforma della società.
Nel marzo del 1790, infatti, erano scoppiati tumulti a Niscemi, nella vicina Sicilia, ed il governo napoletano aveva ordinato al viceré principe di Caramanico di tenere d'occhio i giacobini, temuti – scrive Giuseppe Quatriglio - perché fanatici e oltranzisti in grado di abbattere il re e considerati, per questo, sovversivi ai quali non bisognava dare tregua. Nel 1792 i fermenti si estesero a Reggio, alimentati dall'opera di Giuseppe Logoteta, un intellettuale di idee democratiche prontamente arrestato e condotto prigioniero a Messina.
Seguì una grande ondata di protesta contadina, che, però, si indirizzò verso rivendicazioni demaniali destinate a non dare risultati, anche se il fronte chiamato a sostenere la lotta fu molto ampio, perché andava dai braccianti ai piccoli proprietari, dagli artigiani ai professionisti rimasi esclusi dagli acquisti delle terre. Dal momento che non esisteva in Calabria una prospettiva di ristrutturazione agraria basata sulla piccola proprietà contadina, dice Pino Arlacchi, il malcontento delle campagne non si incontrò con le idee dei massoni e dei giacobini calabresi ed il movimento di rivolta, intercettato dalle autorità governative e piegato alla volontà dei ceti dominanti, non sfociò in un movimento politico e non provocò insurrezioni.
E questo avvenne nonostante la presenza, ormai diffusa su tutto il territorio calabrese, di logge massoniche (qualcuno sostiene che la prima loggia massonica d’Italia sorse a Girifalco nel 1723, dieci anni prima della loggia di Firenze).
Antonio Jerocades, chiamato l'abate rosso per le sue idee, lasciata la Francia, aveva fondato a Napoli una sala massonico-giacobina che nel 1792 aveva preso il nome di Società Patriottica Napoletana, e logge di "liberi pensatori" erano state fondate pure in Calabria. Ai primi nuclei di Catanzaro e Tropea, dipendenti direttamente dalla loggia madre di Marsiglia, si aggiunsero Filadelfia e Maida e, qualche anno dopo, le logge di Pizzo, Paola, Stilo, Rossano, Belvedere, Monteleone, Nicastro, Cosenza, Reggio, Bagnara, Corigliano, Crotone, Seminara, Cirò, Colosimi, Mongrassano e Amantea.
Cosmopolita e mediterraneo, Antonio Jerocades fu convinto assertore di una moralità politica combattente, alimentata da ideali di lotta contro ogni forma di tirannide e di oppressione. Alle forze del male l'abate contrappose la "festa della luce", con un invito ad accettare le nuove libertà e preparare un futuro fatto di progresso e di fratellanza, al di sopra delle differenze linguistiche, religiose ed etniche. Convinto che ogni cambiamento politico necessitava di un preventivo mutamento in campo pedagogico, auspicò una rivoluzione culturale in grado di creare le condizioni per una trasformazione radicale della società.
Lo Stato era, per lui, lo strumento per ammodernare la società e redimere le plebi dalle condizioni di arretratezza materiale e di sottosviluppo culturale, e per riformare lo Stato Jerocades passò dalle idee all'azione, cominciò ad inneggiare alla rivoluzione francese e declamò versi contro la tirannide. Il 12 gennaio 1793 i suoi seguaci salirono a bordo della nave francese Languedoc, che era all'ancora nel golfo di Napoli, e si incontrarono con l'ammiraglio Latouche.
L’abate calabrese fu arrestato nei primi giorni del 1793 e fu relegato in un convento fino a maggio del 1794, ma da quegli incontri, scrive Anna Maria Rao, prese avvio una vera e propria attività cospirativa. L’iniziativa antiborbonica uscì allo scoperto e nel corso di un convegno tenuto a Posillipo nell’agosto del 1793 furono gettate le basi di un movimento giacobino napoletano che nacque dalle ceneri di un illuminismo riformatore e monarchico che aveva ormai esaurito la sua funzione, ed anche per il Mezzogiorno d’Italia venne il tempo delle rivolte.
Agli inizi del 1794 la Società Patriottica fondata da Jerocades si scisse in due club, uno moderato e l'altro radicale. Il primo, guidato da Rocco Lentini e chiamato Lomo, aveva per motto la frase Libertà o Morte ed era frequentato da persone che speravano di riformare le istituzioni nell’ambito monarchico; il secondo, guidato da Andrea Vitaliani e chiamato Romo, aveva per motto la frase Repubblica o Morte ed era formato da giovani rivoluzionari e repubblicani.
Una congiura per rovesciare la monarchia e instaurare nuove istituzioni democratiche veniva preparata a Napoli attraverso l'azione del club rivoluzionario "Repubblica o morte", e da Napoli la cospirazione doveva allargarsi fino al Molise, alle Calabrie e a Palermo. Vincenzo Vitaliani, fratello di Andrea, reclutò uomini nelle taverne del Molo, ma gli sbirri controllavano la situazione e a seguito di tre diverse denunce la polizia intervenne a più riprese e arrestò decine di giacobini.
L'insurrezione doveva scoppiare alla fine di marzo 1794, ma il governo di Ferdinando, pronto a sventare il pericolo, costituì una speciale Giunta di Stato per allestire i processi contro 65 arrestati, mentre altri giacobini sfuggiti alla cattura scapparono nelle più lontane province del Regno oppure in altri stati della Penisola.
Il 3 ottobre 1794 il processo si concluse con due sole assoluzioni; gli altri imputati, difesi strenuamente da Mario Pagano, furono condannati al confino, alla galera, alla deportazione nelle isole, e per tre di essi fu pronunciata la condanna a morte. I condannati a morire furono Vincenzo Vitaliani, Emanuele De Deo e Vincenzo Galiani, gentiluomini per nascita, notissimi nelle scuole per ingegno, ignoti al mondo, scrive Pietro Colletta, il quale parla diffusamente della congiura, per la quale tre morivano, molti andavano a dure pene, tutti pericolavano, e si spegneva la morale pubblica, si creavano parti e nemicizie, cominciava tirannide di governo, contumacia di soggetti, odi atroci ed inestinguibili per andar di tempo e per sazietà di vendette.
Il 18 ottobre 1794 i giovani De Deo, Galiani e Vitaliani salirono il patibolo allestito in piazza Castello a Napoli in un clima di forte tensione; la polizia temeva un’insurrezione, nell’aria risuonò uno sparo, poi altri spari, la folla fuggì e i soldati spararono sul popolo; sul terreno si contarono 35 feriti e 6 morti, ai quali si aggiunsero poi i corpi dei tre patrioti giustiziati. Uomini che aprirono la via del martirio per la libertà e l'indipendenza della patria, scriverà poco dopo Vincenzo Cuoco, mentre molti altri loro compagni furono costretti ad abbandonare il Regno e si sparsero nelle terre italiane dove già si apprestavano ad intervenire le truppe francesi della Repubblica.
Dopo la repressione della congiura giacobina di Napoli, alla quale avevano partecipato i club calabresi che a partire dal 1792 si erano diffusi nei diversi centri della regione, Gian Lorenzo Cardone compone l’inno Te Deum de’ Calabresi e Gregorio Mattei nel 1799 scriverà che “i giacobini di Napoli furono i primi che diedero il grido all’Italia sonnacchiosa”. Dal canto suo il Cortese definisce le vittime del 1794 "i primi martiri della libertà e quindi del Risorgimento italiano".
Un contributo determinante alle sollevazioni e alle rivolte veniva allora dagli intellettuali calabresi, alcuni dei quali erano tornati da Napoli negli anni tra il 1760 ed il 1770 e, nutriti alla scuola di Genovesi, Conforti e Cirillo, si erano adoperati per la diffusione delle idee illuministe. Cosenza, Catanzaro e Monteleone erano le città dove i fermenti della nuova cultura trovavano nuova linfa, grazie all'opera di uomini come Pietro Clausi di Rogliano, Domenico Condopatri di Rizziconi, Giuseppe Raffaelli di Catanzaro, Domenico Antonio Gully di Chiaravalle. Dalle scuole uscirono ingegni come Nicola Zupo, Giuseppe Spiriti, Domenico Bisceglia, Francesco Saverio Salfi.
Luoghi di discussione e di confronto erano pure le scuole di Briatico, Tropea, Luzzi e Lago; i seminari diocesani erano frequentati pure da giovani che non intendevano dedicarsi alla carriera ecclesiastica. Tra il 1785 ed il 1790 erano stati presenti a Catanzaro Pasquale Baffi e Vincenzo De Filippis, entrambi futuri martiri della Repubblica Partenopea nel 1799. Pasquale Baffi, di origini albanesi, era nato a S. Sofia d’Epiro, in provincia di Cosenza, aveva studiato nel collegio di S. Benedetto Ullano e nel 1774 aveva aderito alla massoneria; Vincenzo De Filippis era nato a Tiriolo, aveva studiato matematica a Napoli e a Bologna ed era pure studioso di filosofia.
Un’attività culturale intensa e operosa, che si manifesta pure con la fondazione a Scigliano, nel 1790, del primo ginnasio della zona, affidato ai Padri Filippini, e con la creazione di teatri a Cosenza e Catanzaro nel 1792 e a Crotone nel 1795; mentre nel 1794 il collegio di S. Benedetto Ullano, fondato dagli italo-albanesi nel 1732, viene trasferito a S. Demetrio Corone ed acquista una fisionomia laica, con predilezione per gli studi umanistici.
Intanto nel regno i tentativi insurrezionali continuano e pochi mesi dopo l’esecuzione dei tre patrioti a Napoli viene scoperta nel Regno una nuova congiura. I preparativi insurrezionali si manifestano tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo del 1795 e nell'avventura risulta coinvolto lo stesso Luigi de' Medici (tipico gentiluomo dell'antico regime, nutrito d'idee illuministe e amico dei filosofi, lo definisce Valles Poli), reggente della Vicaria e già consigliere del re, il funzionario che aveva visitato la Calabria nel 1792 e che aveva riportato a Napoli l’immagine di una regione dove l’amministrazione pubblica contribuiva a generare nuovi privilegi a danno di una schiera sempre più numerosa di poveri.
Nel 1797, la sera dell'ultimo giorno della festa della Madonna della Consolazione, fu ucciso a fucilate il governatore di Reggio Giovanni Pinelli, e la repressione del governo fu violenta: il caporuota Angelo di Fiore, in una sola notte, fece arrestare cinquanta persone, tra le quali Ignazia Musitano, moglie di Logoteta, e Geronima Filocamo, moglie di Carlo Plutino.
In Calabria negli anni tra il 1794 ed il 1798 furono celebrati 493 processi e tra il 1794 ed il 1795 furono inquisiti Gregorio Aracri, Domenico Grimaldi, Pietro Clausi, Nicola Zupo, Vincenzo De Filippis, assieme ad altri esponenti della borghesia e delle professioni. In tutti quegli anni l’azione della polizia fu violenta, le prigioni si riempirono di uomini che non avevano avuto nulla a che vedere con le congiure e le celle umide e prive di luce di vecchi castelli si trasformarono in luoghi di pena per innocenti.
Perseguitati dalla repressione, calabresi, napoletani, pugliesi e lucani si incontrarono, esuli, nelle regioni italiane già liberate dalle truppe francesi e vissero lunghi anni nell'attesa di ritornare alle loro terre, nei loro paesi, fosse anche al seguito delle truppe di occupazione del generale Championnet.
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