MASSONI E GIACOBINI
NELLA CALABRIA DEL SETTECENTO
(di Armando Orlando)
A Napoli regnava Carlo di Borbone, figlio del re di Spagna Filippo V e di Elisabetta Farnese, quando la Massoneria, che nel decennio 1730-40 si era diffusa in Toscana, fu introdotta nel Regno, e dopo il 1745 l'associazione fece la sua apparizione anche in Calabria, dove i suoi principali animatori furono Vincenzo De Filippis di Tiriolo, matematico, Francesco Saverio Salfi di Cosenza, abate e letterato, Antonio Jerocades di Parghelia, poeta e pubblicista, fondatore della prima loggia di liberi muratori nella regione.
I Massoni, scrive Marco Mascardi, discendevano dagli antichi costruttori di cattedrali che operavano in Inghilterra e si tramandavano i segreti tecnici per realizzare le loro chiese monumentali. Essi si erano dati il nome di "Free Masons", Liberi Muratori, ed il luogo delle riunioni, la Loggia, aveva preso il nome dal capannone eretto presso la cattedrale in costruzione, dove quei lavoratori vivevano, mangiavano, dormivano e si riparavano in caso di maltempo. Nella Loggia venivano istruiti i più giovani, ed i più bravi, con il tempo, venivano ammessi a conoscere i segreti tecnici, salendo i gradi che i Liberi Muratori si erano dati per il controllo della fedeltà dei Fratelli. E nelle Logge si riunivano periodicamente benestanti, nobili di campagna ed artigiani, per discutere di problemi legislativi e di problemi morali. Quando poi il numero delle cattedrali da costruire cominciò a diminuire, i Fratelli stabilirono un rapporto con il gran numero di esuli e profughi che arrivavano dal Continente: scienziati, scrittori e filosofi cacciati dai loro paesi di origine e giunti in Scozia ed Inghilterra, dove potevano esercitare liberamente il proprio pensiero e dove, assieme agli ingegneri e architetti già presenti, avevano trasformato le Logge in luoghi sicuri per portare avanti gli studi ed i contatti fra sapienti. Era nata così, osserva Mascardi, la Massoneria speculativa, che si riuniva per migliorare la qualità degli uomini nel rispetto delle leggi dello Stato.
Nella forma moderna di società segreta, ha scritto su Calabria Letteraria Vincenzo Segreti, la Massoneria era nata a Londra nel 1717, conservando dell'antica corporazione le caratteristiche delle tre categorie di apprendista, compagno e maestro; nella seconda metà del Settecento, continua Segreti, la società si era diffusa ovunque ed era diventata veicolo utilissimo per la propaganda delle idee illuministe e strumento indispensabile del dispotismo illuminato per la lotta contro i privilegi della Chiesa. Città di mare come Livorno, scrive invece Stuart J. Woolf, erano state una porta aperta nei confronti dell’Europa, e la loggia di Firenze, dapprima interamente inglese, e successivamente aperta agli italiani, fu il luogo dove si sviluppavano le idee sul diritto naturale in base a letture e discussioni delle opere di Montesquieu e di Locke.
Nel regno di Napoli il re Carlo "riprovò e proscrisse" la Massoneria nel 1751, ma l'editto rimase quasi inapplicato, anche perché le logge, nella capitale del Regno, si distinguevano più per l'attività mondana che per l'opera di diffusione delle idee di fratellanza. Ed era forse per questo che l'arciduchessa d'Austria Maria Carolina, regina di Napoli dopo il matrimonio con Ferdinando, figlio di Carlo diventato re nel 1759, si spinse non solo a proteggere la setta, ma secondo alcuni storici arrivò persino a farne parte.
Dalla sua cattedra di economia politica, creata a Napoli nel 1754 da Bartolomeo Intrieri, l’anziano amministratore dei patrimoni fondiari toscani nell’Italia del Sud, Antonio Genovesi predicava la necessità di urgenti e radicali riforme economiche, scrive ancora Woolf, indicando a un’intera generazione di discepoli gli esempi dell’Olanda e dell’Inghilterra del Seicento, della Francia e della Spagna del suo tempo, e della vicina Toscana. La funzione degli scrittori doveva essere quella di preparare i cittadini, così come gli intellettuali dovevano combattere i pregiudizi e le idee correnti, per orientare l’opinione pubblica a favore delle riforme. Ma l’attiva collaborazione fra intellettuali e uomini di governo, quale si era realizzata in Lombardia e in Toscana, non era riuscita ad affermarsi nel Napoletano, come abbiamo scritto nei capitoli precedenti di questa storia, forse a causa della dominante personalità del primo ministro Bernardo Tanucci, il quale, sospettoso delle astrazioni dei filosofi francesi, era rimasto sordo alle proposte del Genovesi ed alla Massoneria aveva opposto l'autorità dello Stato. Misogino, zelante, ricco di esperienza – come lo definisce Woolf – questo ex professore toscano si era dedicato tutto alle riforme giuridiche ed antiecclesiastiche, e la sua offensiva contro la Massoneria finì per provocare i risentimenti della regina. Nell'ottobre del 1776 re Ferdinando tolse a Tanucci l'incarico di primo ministro, lasciandolo con il titolo di consigliere di Stato; al suo posto venne nominato il siciliano Giuseppe Beccadelli Bologna, marchese della Sambuca, destinato a governare fino al 1786.
Intanto nelle terre del Mezzogiorno d'Italia era cominciato il processo di decadenza del baronaggio ed i nuovi ceti emergenti, che costituivano la borghesia, stavano approfittando della crisi della proprietà feudale e si stavano irrobustendo con gli affitti, gli appalti, l'usura e l'occupazione di terre comunali. La catastrofe annonaria e la carestia del 1763-64 avevano aggravato la congiuntura economica, provocando un inasprimento dei conflitti sociali ed un allargamento del senso di precarietà esistenziale, complicando ogni prospettiva strategica su un nuovo tipo di sviluppo del Regno e contribuendo non poco, scrive Saverio Napoletano, al rafforzamento del tradizionale sistema di monopolio e controllo delle campagne. Infatti una delle ripercussioni più profonde provocate dalla carestia è stata, testimonia lo studioso di Papasidero, l'assecondamento degli interessi particolari di mercanti, incettatori e agrari con il baronaggio, che continua a mantenere una posizione di sostanziale predominio grazie al potere giurisdizionale e ai privilegi di casta.
Il governo napoletano cercò grano un po' dovunque. Si usò persino la marina da guerra per convogliare verso Napoli navi straniere cariche di frumento ed il ministro Tanucci si adoperò moltissimo per superare la gravità della situazione. Ma la penuria del cereale ed i disastri del 1783 avevano gettato la gente di Calabria nella disperazione; l’aumento del prezzo del grano e l’appropriazione delle terre comunali da parte dei feudatari erano fenomeni che aggravavano le condizioni economiche già disastrate. Chi lavorava la terra pagava imposte più onerose di chi la possedeva ed i tribunali regi non riuscivano ad avere il sopravvento sulla giurisdizione dei baroni. La regione appariva trascurata anche nelle vie di comunicazione, ed un viaggio da Napoli a Cosenza durava una decina di giorni, mentre a Reggio si arrivava via mare, perché la distanza tra la città e Cosenza poteva essere colmata solo dopo una settimana di cammino: 17/18 giorni da Napoli a Reggio, dunque, lo stesso tempo che impiegava un plico spedito da Amsterdam e destinato a Bologna. Essa, inoltre, era oppressa da un rigido sistema fiscale che bloccava sul nascere ogni iniziativa imprenditoriale e ostacolava la libera circolazione delle merci, mentre il popolo misurava la lunghezza in palmi, i pesi in rotoli ed i liquidi in cannate ed utilizzava il ducato come moneta di conto.
In Calabria la colossale accumulazione fondiaria che si era verificata dopo l'istituzione della Cassa Sacra, tra il 1784 ed il 1796, aveva contribuito ad aggravare le condizioni di vita delle classi inferiori ed i contadini, oppressi da proprietari borghesi che si erano rivelati più esosi e rapaci dei precedenti padroni ecclesiastici, abbandonati dagli amministratori delle Università presso le quali avevano trovato comprensione, risultarono schiacciati in un ruolo di subalternità e si abbandonarono ad atti di protesta che crescevano di tono e che si diffondevano in tutta la regione. Spesso, ha lasciato scritto Giuseppe Brasacchio, i miseri contadini sono il bersaglio di bande che taglieggiano il contado e non osano rivolgersi alla giustizia per tema di incappare nelle spire dei corrotti giudici. Con lo sfrenarsi degli egoismi si spegne ogni soffio di umanità, e la disgregazione della società, acuita dal terremoto del 1783, alimenta la spirale della tensione con manifestazioni che non mancano di preoccupare le autorità costituite. Ed il malcontento finì, così, per alimentare il desiderio di rivolta.
Il Settecento, scrive a tal proposito Woolf, fu un secolo caratterizzato da un continuo aumento dell’indebitamento dei contadini e delle comunità rurali; le campagne formicolavano di vagabondi e nel Sud diventavano sempre più numerose le bande di briganti. Per questo “il brontolio delle masse si fece più minaccioso”. Alla prima sommossa romana del 1736 ed alla rivolta di Genova del 1746 seguirono, in Calabria, i primi segni di ribellione che si manifestarono nel 1787, a tre anni dall'istituzione della Cassa Sacra, quando si verificarono tumulti a Gerace e Tropea. Allora un capobanda di Grotteria, un certo d'Agostino, era arrivato a controllare le terre joniche da Catanzaro a Reggio, ma nel marzo di quello stesso anno il fenomeno era stato represso dalle truppe borboniche con un'azione militare in piena regola, ed il bandito arrestato e giustiziato.
Le agitazioni popolari del 1787, scrive Augusto Placanica, ci confermano la drammaticità del momento, aggiungendo che né la confisca operata ai danni dei Gesuiti (lo scioglimento dell'ordine religioso era stato il primo atto di governo di re Ferdinando uscito dalla minore età) né l’incameramento dei beni ecclesiastici s'erano rivelati strumenti di redistribuzione della proprietà e di modernizzazione. Ed infatti il residente veneto Alberti così informava il Senato di Venezia sui tumulti: "Tale e così infelice è la situazione dei sudditi delle Calabrie che, se non si riforma il piano proposto dal generale Pignatelli, vicario generale del Re, non è difficile che la situazione li porti a rimuovere pericolose sollevazioni" aggiungendo, qualche mese dopo, che "le Calabrie erano oppresse più che dai sofferti terremoti, dalla violenza e rapacità dei ministri e ufficiali ivi lasciati dallo stesso generale".
"Rompete, augustissimo padre e monarca, le ignominiose catene che tanto avviliscono i vostri figli" aveva supplicato nel 1788 l'abate Longano rivolto al Re. "Liberate dal giogo baronale tutte quelle università le quali si distingueranno o nell'agraria o nella pastorizia o nella introduzione di qualche arte utile. Vedrete in un subito cambiata la faccia della provincia, coll'abolizione di tanti diritti proibitivi e di tante angarie e parangarie... E dove la Maestà Vostra non voglia fare questo passo glorioso, ci spedisca almeno i governatori, o permetta che i popoli possano presentare ai loro baroni le terne de' governatori e de' giudici, o tolga loro la giurisdizione criminale per non lasciare tutto in loro arbitrio". E Genovesi spiegava: "Vogliamo migliorare la campagna? Facciamo prima che i contadini si persuadano di lavorare per sé e per i loro figli. Finché dormiranno a terra nuda e mangeranno gramigne e si riputeranno schiavi, non è da aspettare di veder miglioria".
Inoltre, le relazioni spedite a Napoli e scritte dagli inviati del governo chiamati ad ispezionare la regione (il tenente colonnello Elia M. Tomasi nel 1784, e negli anni successivi Sarconi, Grimaldi e Medici) contenevano testimonianze inequivocabili sulla condizione dei cittadini e sui segni di una rivolta che cominciava a serpeggiare in varie zone, come a Mammola, Monteleone, Tropea, Roccella, Galatro, Laureana, Palmi, Bagnara, Casalnuovo, Chiaravalle, Catanzaro, dove "prepotenti di detti luoghi stan formando segreto progetto di sovvertir la gente e far che si sollevi, sulle promesse che non pagherà in avvenire più tributi, vettivagli e altro". Mentre la crisi della giustizia, aggiunge Giuseppe Spiriti, lasciava tracce indelebili nei costumi e nella psiche dei calabresi: l'impunità genera i delitti e la frequenza dei delitti induce alla ferocia tutti gli ordini dei cittadini.
Ma, come abbiamo più volte scritto, ai molteplici problemi del paese e alle istanze prodotte dagli illuministi il re Ferdinando non seppe dare risposte adeguate. Non seppe o non volle essere quel punto di riferimento per il rinnovamento del paese come chiedevano gli intellettuali e come riuscivano a fare altri sovrani illuminati, tra i quali si distinguevano i suoi stessi cognati, Giuseppe II imperatore d'Austria e Pietro Leopoldo granduca di Toscana.
Pietro Leopoldo e Giuseppe erano già stati a Napoli. Uno nel 1768, quando accompagnò con il corteo nuziale la sorella Maria Carolina andata sposa proprio a Ferdinando; l’altro nel 1769; ed entrambi avevano espresso giudizi poco lusinghieri sul sovrano, anche se convenivano che la sua indole non era cattiva. Giuseppe era tornato a Napoli nel 1783, ed anche se in forma privata, aveva avuto modo di giudicare positivamente gli effetti del riformismo avviato dal governo napoletano. Nei primi giorni del 1784, poi, c’era stata la visita privata dell'imperatore austriaco Giuseppe II, il quale, impressionato dalle notizie che provenivano dalla Calabria, aveva manifestato il desiderio di visitare quelle terre colpite dalle rovine; ma i disagi del cammino, la stagione invernale e l'assenza di strade regie o buone, scrive Colletta, sconsigliarono il viaggio.
Lo stesso re di Napoli, nel 1785, aveva intrapreso un viaggio durato cinque mesi, attraverso le principali città del centro nord, a cominciare da quelle della Toscana, dove ancora regnava il cognato Leopoldo, destinato a diventare imperatore d'Austria nel 1790; ma, tornato nel Regno, non aveva mutato la sua posizione, lasciando ampi spazi di manovra all’ammiraglio inglese John Francis Edward Acton, nominato ministro della Guerra e della Marina grazie all'interessamento di Maria Carolina.
L’ascesa di Acton al potere fu, secondo Woolf, l’espressione della volontà della regina di liberare Napoli dalla tutela spagnola. L'onnipotenza del ministro franco-irlandese, scrive Silvio De Majo, impensieriva la corte di Madrid e re Carlo III già nel 1784 aveva pregato il figlio di allontanare l'inglese da Napoli, o almeno destituirlo dalle sue cariche. Ferdinando, continua De Majo, probabilmente perché influenzato dalla moglie, non cedette, nonostante buona parte del governo fosse contraria ad Acton e complottasse contro di lui, accusandolo tra l'altro di essere l'amante della regina. Ma Maria Carolina era sempre desiderosa di interrompere il legame privilegiato che la politica estera napoletana aveva allacciato con la Spagna, per poi orientarne gli indirizzi verso l'Austria, e per questo, una volta fallita la congiura contro di lei, convinse il re a togliere l'incarico di primo Ministro al marchese della Sambuca, considerato esponente di primo piano del partito filospagnolo di corte, e al suo posto nel 1786 fu chiamato il marchese Domenico Caracciolo, che dal 1781 svolgeva le funzioni di viceré in Sicilia. Per dieci anni ambasciatore del re borbone presso la corte di Francia, Caracciolo, che a Parigi era stato molto vicino allo spirito illuminista, si era distinto per aver deciso l'abolizione dell'Inquisizione nell'isola e per aver soppresso i tribunali del Sant'Uffizio. Chiamato a Napoli dopo l'allontanamento del marchese della Sambuca, ricoprì la carica di primo ministro e portò a compimento l'opera di separazione dello Stato dalla Chiesa, abolendo definitivamente, nel 1788, l'atto di sottomissione rappresentato dalla donazione di un cavallo bianco con 7.000 scudi d'oro che ogni anno il sovrano di Napoli effettuava a favore del Pontefice.
In un contesto così definito cominciava a prendere corpo la formazione di un partito riformatore di orientamento radicale, che, scrive Fausto Cozzetto, aveva avuto le sue prime manifestazioni tra il 1760 ed il 1770, quando erano tornati in Calabria gli allievi di Antonio Genovesi, aprendo scuole private o inserendosi nelle scuole regie che il riformismo borbonico aveva creato per sostituire quelle dei gesuiti. Si formava così, secondo lo studioso, la generazione degli "spiriti forti", che molto presto si segnalò per gli orientamenti radicali sul piano teorico e per i legami istituiti con la massoneria. Ed uno degli strumenti di ascesa sociale, osservano Di Bella e Iuffrida, era costituito dagli studi delle "humane lettere" presso i seminari vescovili, che avviavano all'accesso delle professioni liberali. Napoli era il riferimento principale per gli studi di lettere e medicina, una volta completati gli studi primari nelle scuole locali, ed a Napoli si recò per continuare gli studi il giovane Antonio Jerocades, nato a Pargelia nel 1738 e avviato al sacerdozio nel vicino seminario di Tropea.
Giuseppe Galasso ha scritto che è intorno al 1750 l'epoca in cui il Risorgimento italiano appare già in atto, quando si fa più corposo un rinnovamento culturale, economico e sociale che prepara l'Italia alle svolte decisive degli anni rivoluzionari e napoleonici a partire dal 1796: data che, come quella del Congresso di Vienna del 1815, è la più corrente per indicare gli inizi del Risorgimento. Con quel moto avviato a metà del Settecento l’Italia torna a dare il suo contributo di civiltà, dopo che la perdita di autonomia sancita dalla pace di Cateau-Cambrésis l'aveva consegnata nel 1559 all'egemonia spagnola, facendola passare dall'avanguardia alla retroguardia dell'Europa moderna e lasciando alle spalle il periodo fecondo del Rinascimento, durante il quale, aggiunge Galasso, lettere e arti vi ebbero nomi eccelsi, iniziò la musica moderna, con l'Umanesimo maturarono un nuovo spirito e una nuova cultura, la scienza ebbe in Galilei una vera vetta, il pensiero politico l'ebbe con Machiavelli, alla vita aristocratica e sociale fu dato il relativo galateo, debuttarono la banca e il capitalismo moderno.
Ma il Paese, ricco, colto e raffinato, non era riuscito a dare vita ad uno stato potente, ed in tutte le sue contrade era divenuta di moda l'espressione servile e ruffiana di Francia o Spagna - basta che se magna. La pubblicazione in 3.200 esemplari della prima edizione dell'Enciclopedia, iniziata a Lucca nel 1758 - a soli sette anni dalla stampa del primo volume apparso a Parigi - fu un evento che contribuì a far uscire l'Italia dal torpore ed il Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri (era questo il nome dettagliato dell'opera) favorì la diffusione del sapere seguendo un metodo organizzato secondo una prospettiva critica fondata sulla ragione e sull'esperienza. Intorno alla metà del Settecento si cominciò a parlare di "opinione pubblica" intesa come l'insieme dei modi di pensare della gente, e veicoli di diffusione del sapere e di ricerca del consenso furono i giornali, che rappresentarono uno degli aspetti più interessanti di quel periodo.
Fogli d'avviso contenenti notizie manoscritte su fiere e mercati erano diffusi a Roma fin dall'Umanesimo, e a Venezia questi foglietti erano venduti al pezzo di una gazzetta, moneta del valore di due soldi. La scoperta della stampa favorì poi la nascita di fogli non più manoscritti, ma stampati, e per tutto il Seicento le Gazzette si diffusero in numerose città europee, diventando settimanali e cominciando ad ospitare articoli di carattere politico e sociale. Il primo giornale era stato pubblicato a Strasburgo nel 1609, mentre a Parigi il 30 maggio 1631 era stato distribuito il primo numero della Gazette de France. Ma è a Londra che vide la luce nel 1702 il primo quotidiano, il Daily Courant, e da allora il giornalismo d'informazione ebbe uno sviluppo impressionante.
In Italia la priorità delle prime pubblicazioni spetta alla Toscana, dove il Granduca concesse nel 1636 la prima autorizzazione per la stampa. Seguono poi Roma, Rimini, Milano, Torino e Genova, e nel Settecento letteratura e giornalismo si avvicinarono: i progressi delle gazzette, l'esempio degli scrittori inglesi, il nuovo spirito illuministico, ha scritto Carlo Casalegno, convincono molti letterati all'attività pubblicistica. La Gazzetta di Parma, fondato nel 1735 sotto forma di Avviso, fu il più antico giornale italiano, testimonia Montanelli, mentre il primo giornale vero e proprio fu la Gazzetta veneta, bisettimanale di Gaspare Gozzi uscito nel 1760. Nel 1763 Giuseppe Baretti fondò a Padova La frusta letteraria e nel 1764 vide la luce a Milano Il Caffé, un foglio di stampa che si pubblicherà ogni dieci giorni e che, grazie alla collaborazione dei fratelli Verri e di Cesare Beccaria, diventerà una tra le manifestazioni più importanti dell'illuminismo italiano. Montanelli ci dice che i meriti del Caffé furono enormi e sia pure in piccolo, esso rappresentò per l'Italia ciò che l'Enciclopedia aveva rappresentato per la Francia, contribuendo a mettere in circolazione delle idee che rinfrescarono l'aria stantìa del nostro Paese. Ed il nome della pubblicazione non fu scelto a caso: era il tempo in cui proprio i caffè si moltiplicavano come luoghi di ritrovo sociale; già nella Londra di fine Seicento le informazioni economiche venivano raccolte in questi locali, ed è proprio in un caffé di Lombard Street che Edward Lloyd stampò nel 1696 un giornale pubblicato tre volte la settimana e contenente notizie non solo economiche, ma politiche e militari. Uno dei più antichi locali d'Italia, il Florian, era nato in Piazza San Marco, a Venezia, nel 1720, e nel 1743 al Caffé Greco di Roma si sarebbe fermato pure Casanova.
Tutto ciò ha fatto dire allo scrittore di Fucecchio che “nella sonnacchiosa cultura italiana del Settecento il giornalismo è stato l'unico fatto veramente nuovo e rivoluzionario; non tanto per il contributo di pensiero che ha portato, e che non aveva nulla di originale, quanto per la rottura che ha provocato nelle sue strutture. In una cultura senza più legami con la realtà e con la società, il giornalismo rappresentò una ventata d'aria fresca".
E’ dal 1750, dicevamo, che alla vivacità dei rapporti commerciali tra città come Tropea, Napoli e Marsiglia si accompagnava una vivacità intellettuale, e nell'intensificarsi delle relazioni culturali con la capitale il seminario diocesano della città del Tirreno calabrese svolgeva un ruolo di primo piano e contribuiva alla formazione dei giovani intellettuali che proseguono gli studi. Napoli, scrive Antonio Bagnato, non è solo la capitale politica del Regno, ma si presenta come il luogo culturale in cui le idee illuministiche e massoniche si possono esprimere e diffondere con una certa libertà, e gli intellettuali, appartenenti a diversi ceti sociali e formatisi quasi sempre in ambienti ecclesiastici, pur provenendo dalle province, comprendono il ruolo rivoluzionario che può avere la cultura. Per il tramite dei giovani studenti universitari e lungo le rotte mercantili che settimanalmente le feluche di Tropea e Parghelia tracciavano tra la periferia e il centro, aggiungono Giuseppe Galasso e Francesco Campennì, viaggiano le filosofie politiche ed economiche dell'Illuminismo europeo e giungono libri, corrispondenza, notizie dell'ultima ora.
Ed è proprio nella scuola inferiore del seminario di Tropea che Antonio Jerocades cominciò l'insegnamento, dopo l'ordinazione sacerdotale avvenuta nel 1763; ma dopo due anni il sacerdote venne allontanato per aver criticato i costumi e il tenore di vita del clero locale. Antonio Jerocades sognava il rinnovamento della Chiesa ed il ritorno della gerarchia alla missione evangelica delle origini, e per questo, appassionato cultore del pensiero di Giambattista Vico, si trasferì a Napoli, dove cominciò a frequentare le lezioni di Antonio Genovesi. Nel 1767 insegnò nel Real Collegio Tuziano di Sora, ma, accusato di eresia per aver scritto il dramma Il ritorno di Ulisse, fuggì a Marsiglia, dove soggiornò per undici anni e dove entrò in contatto con la Massoneria, scomunicata in Italia ma libera in Francia, e lì incontrò illuministi, liberi pensatori, filosofi e letterati, fra i quali il celebre Voltaire.
Era il tempo in cui piccoli gruppi di riformatori sparsi nelle province scambiavano attivamente le loro idee per mezzo delle logge massoniche, scrive Woolf, e non attraverso le accademie agrarie, nelle quali Genovesi aveva riposto tante speranze e per le quali aveva lavorato dalla sua cattedra di economia politica. Le logge divennero così luoghi di incontro per persone appartenenti ai diversi ceti sociali e favorirono il contatto con la realtà di altri paesi. Napoli fu, allora, una città cosmopolita, con il suo continuo flusso di viaggiatori e di libri, e la presenza della Massoneria fu attiva e cominciò a far sentire i suoi effetti anche nelle più lontane province del Regno. A tutto questo movimento la Calabria non poteva rimanere estranea, ed è questo il tema del nostro prossimo appuntamento.
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