NAPOLI E MILANO NEL SETTECENTO
GLI ESITI DEL MOVIMENTO RIFORMISTA
(di Armando Orlando)
Nel 1787 morì, a soli 36 anni, Gaetano Filangieri, il quale nel 1780 aveva pubblicato per la prima volta a Napoli La scienza della legislazione. Scrive Massimo Firpo che il principe napoletano di illustre casato aveva consegnato a quelle pagine uno sforzo coraggioso di ripensare dalle fondamenta tutto l'impianto della legislazione di Antico regime. Fautore convinto dell'Illuminismo, infatti, Filangieri avversò aspramente i teorici della ragion di Stato, combatté strenuamente i privilegi feudali e, nel campo penale, ebbe il merito di opporsi al procedimento inquisitorio, facendosi fautore del ritorno alla giurisprudenza romana. L'ardito costituzionalismo repubblicano dell'autore, ricorda Firpo, mirava a costruire le premesse giuridiche di una società capace di offrire a tutti i cittadini non solo astratte garanzie di giustizia, ma anche concrete possibilità di emancipazione. E - come dice Vincenzo Ferrone - quel modo radicalmente nuovo di pensare al diritto rappresentò davvero il contributo dell'Italia alla nascita del moderno diritto pubblico europeo.
Scrivono Montanelli e Gervaso che Napoli era, in quel tempo, la città più popolosa d'Italia, ed i suoi abitanti superavano di molto quelli di Vienna, la capitale dell'impero degli Asburgo, ma le persone vivevano come in una casbah orientale, senza servizi, senza nulla che somigliasse a delle strutture urbane: era la capitale della calca, della confusione, del chiasso e della disoccupazione. A dare il tono a questo composito e ronzante alveare umano erano i 25.000 nobili, che vi erano confluiti da tutte le province dell'interno; non formavano una casta unica, anzi erano divisi in specie e sottospecie, ma avevano in comune i difetti: la cupidigia dei titoli, l'adorazione dell'ozio come segno di rango sociale, e la protervia feudale... Sebbene lo avessero abbandonato per venire in città, ognuno di essi si comportava nel proprio feudo da sovrano assoluto: vi esercitava la propria giustizia, vi teneva la propria forza armata, e qualcuno perfino il proprio carnefice. Naturalmente si mantenevano esenti da tasse e da qualsiasi contributo. Quanto ai loro criteri imprenditoriali e amministrativi, la loro bontà è dimostrata dalla massiccia fuga dei contadini; molti, per sottrarsi alla fame e alle angherie, si rifugiarono negli Stati della Chiesa, ma i più vennero a Napoli, contribuendo alla sua apoplessia e straccioneria.
Un'altra cittadella dell'ozio e del parassitismo - continuano i due autori - era il clero, fra i più grassi e opulenti d'Italia. Rappresentava il due e mezzo per cento dell'intera popolazione meridionale, ma inghiottiva un terzo del reddito generale... Napoli contava più di quindicimila fra preti e monaci, e per sorvegliarne la scandalosa condotta si era dovuto istituire un corpo di guardie che sotto il mantello nascondevano uno schioppo e che naturalmente per una "bustarella" rinunziavano ad estrarlo.
Il ceto medio era composto quasi esclusivamente di personale impiegatizio, medici, notai e avvocati. Mancava una borghesia imprenditoriale perché mancavano le industrie per mancanza di tutto: materie prime, capitali e soprattutto iniziativa... L'unico contributo che il mondo degli affari desse alla categoria era rappresentato dagli appaltatori d'imposte e di lavori pubblici, dai beneficiari di licenze per l'esportazione, insomma da quel mondo di parassiti e di profittatori del sottogoverno che, senza nulla produrre, intrallazzavano nella giungla dei monopoli, dei contingentamenti e di tutti gli altri intralci che i regimi vicereali spagnoli avevano creato nel loro dissennato protezionismo. Di cosa vivesse il popolino di Napoli, nessuno storico è mai stato in grado di spiegarlo... Da secoli governata con le famose tre effe (festa, farina e forca), la grande massa dei Lazzaroni altro non era se non la vittima di una società basata sulle più clamorose e vergognose sperequazioni.
Questa era molto all'ingrosso la capitale del Regno, concludono Montanelli e Gervaso, e cosa succedesse nei suoi retroterra abruzzesi, lucani, calabresi, pugliesi, siciliani, insomma in quello che oggi si chiama il "profondo Sud", si può indurlo soltanto dalla povertà delle informazioni che ce ne restano: campagne spopolate dalla malaria e dal brigantaggio, un contadinume alla mercé dei suoi rapaci baroni e parroci, comuni rurali senza quelle vibrazioni municipali che solo i ceti artigianali e mercantili sanno imprimere, vita intellettuale del tutto stagnante, mancanza di strade e quindi di collegamenti e di scambi, sfiducia, frustrazione, analfabetismo, pessimismo e rinunzia: un quadro tanto più facile da ricostruire in quanto ancor oggi ne sopravvivono le tracce.
Ben altra storia si deve raccontare della Lombardia, una regione che nella prima metà del Settecento, nella lunga catena di guerre cominciate con la successione spagnola, fu coinvolta anche sul piano militare, a differenza della Toscana e di Napoli, che furono coinvolte solo sul piano diplomatico.
La pace di Aquisgrana del 1748 aveva assegnato Milano nuovamente all'Austria, la milizia lombarda era stata sciolta, i poteri delle magistrature cittadine sensibilmente ridotti e la provincia annessa come parte integrante dello Stato austriaco. Napoli e la Toscana erano diventate stati autonomi, con proprie dinastie indigene, anche se legate una ai Borbone di Madrid e l'altra agli Asburgo di Vienna; Milano, invece, era rimasta priva di una propria vita politica; con un territorio ridotto all'osso (il Canton Ticino era andato alla Svizzera, l'oltre Ticino al Piemonte e l'oltre Adda a Venezia), ogni comunità aveva finito col fare parte per se stessa, ciascuna coi propri ordinamenti e la propria cintura di dazi. Quasi più nulla restava della vecchia industria lombarda, soffocata da un sistema corporativo che scoraggiava coi suoi privilegi e monopoli qualsiasi iniziativa. E anche l'agricoltura languiva per via del cosiddetto "regime dei campi aperti" che limitava il diritto del proprietario al raccolto, finito il quale, la terra era a disposizione del pascolo comunitario; ci vuol poco a capire - osservano Montanelli e Gervaso - che questo scoraggiava qualsiasi miglioria o bonifica.
A sentire i due storici, all'inizio del secolo Milano era una classica città di provincia spagnola, cioè inerte e parassitaria. I suoi 130 mila abitanti erano disegualmente distribuiti in circa 5 mila case, e altrettanto disegualmente erano divise le classi sociali... La classe media non aveva ancora una sua propria architettura perché non aveva né la forza né i mezzi per farsela. Milano era una delle poche città italiane che di questa classe avesse conservato un brandello. Ma non si trattava appunto che di un brandello. Essa doveva decollare solo verso la metà del secolo, grazie alle riforme prima di Maria Teresa e poi di suo figlio Giuseppe.
Ed è a metà del Settecento che alcuni intellettuali intuirono di vivere un momento cruciale: l'economia della regione si stava modernizzando e occorrevano le riforme necessarie a sostenerla. Così alcuni giovani, scrive Laura Lepri, entusiasti lettori di Rousseau e di quei filosofi francesi più critici nei confronti del regime antico, fondano L'Accademia dei Pugni e pubblicano "il caffé", rivista che ospita il dibattito culturale. Ovunque, nei salotti e nei ritrovi pubblici, si discute ed il governo austriaco lascia buoni spazi di manovra.
La prima di queste riforme, e la più decisiva, fu il catasto. Iniziato nel 1718 ed interrotto a causa delle guerre, esso fu portato a termine dall'economista fiorentino Pompeo Neri, il quale, dopo dieci anni di lavoro, consegnò all'arciduchessa d'Austria e regina d'Ungheria e di Boemia un sistema completo di registrazione di ogni patrimonio, con una rendita calcolata al quattro per cento del valore accertato dal catasto, e la cifra così determinata costituiva la base imponibile su cui veniva poi prelevata l'imposta. Le rendite superiori al quattro per cento previsto dalla normativa erano considerate esenti dalle tasse. E' facile capire che cosa avvenne, dicono Montanelli e Gervaso. I nobili, che costituivano in maggioranza la classe dei proprietari, non più esentati dalle tasse per privilegio, iniziarono a darsi da fare per pagare le imposte e, visto che c'erano, intensificarono le attività ed aumentarono la produzione. Il primo comparto che si sviluppò fu l'agricoltura. Da luogo di riposo e di svaghi estivi e autunnali, da succursale del palazzo di città, la villa diventò prima "cascina" e poi "azienda". Qui, dicono i due, finisce il redditiero e comincia l'imprenditore. Non per nulla Toscana e Lombardia, entrambe governate da esponenti della casa Asburgo-Lorena, sono le uniche regioni che vedono la nobiltà in veste di protagonista del decollo capitalistico. Gli effetti non sono soltanto economici, ma anche sociali. Il brandello di borghesia sopravvissuto alla rifeudalizzazione del Cinque e Seicento vede subito nello sviluppo capitalistico dell'agricoltura la grande occasione per riprendere l'iniziativa. Ed il borghese diventa affittuario. La proprietà del nobile viene presa in gestione dietro pagamento di un canone superiore al famoso quattro per cento, la terra diventa il luogo dove cercare il "profitto" ed il borghese avvia ai danni della mezzadria una vera e propria rivoluzione, che fa di quella lombarda non solo l'agricoltura più avanzata ed efficiente d'Italia, ma anche la scuola e la palestra dell'impresa industriale.
Alla rivoluzione capitalistica si accompagnò il riordino amministrativo e finanziario, reso necessario dall'eredità lasciata dagli Spagnoli, i quali avevano appaltato tutto: dazi, dogane, regalìe, servizi, poste, trasporti ed il monopolio del sale, dei tabacchi, della polvere da sparo. L'illuminista Pietro Verri chiese che lo Stato assumesse in proprio la gestione di tutte quelle attività, eliminando i privati intermediari, la Ferma generale che aveva affidato temporaneamente ad un gruppo di capitalisti la gestione dei servizi fu abolita nel 1770 e così finì, concludono Montanelli e Gervaso, il secolare scandalo di una speculazione privata inserita tra lo Stato e il cittadino.
A questa riforma seguì il riordino delle circoscrizioni territoriali. Ogni Comune ebbe il suo consiglio comunale, composto di proprietari censiti che eleggevano il sindaco. La provincia aveva un corpo consultivo chiamato "delegazione", e tutti gli enti locali facevano capo alla "Congregazione di Stato" di Milano, che esercitava una funzione tutoria e di controllo. Strettamente agganciata com'era al governo centrale di Vienna, la Lombardia non poté diventare uno Stato vero e proprio, ma diventò se non altro una regione ben strutturata e funzionante, scrivono i nostri due autori, mentre Roberto Coaloa aggiunge che Maria Teresa, con la sua amministrazione, ha lasciato un'ottima testimonianza del suo governo in Lombardia, dove la memoria collettiva non dimenticherà la sua opera.
In campo sociale significativa fu l'azione di smantellamento delle corporazioni, un sistema che aveva preso vita nei primi secoli del Millennio e che si era sviluppato nel corso del Medioevo con la tipica organizzazione in associazioni di mestieri e di professioni. A regolare questi meccanismi erano le Giunte di Commercio, composte quasi sempre di notabili che Montanelli e Gervaso definiscono parrucconi e incompetenti. Seguendo di un anno un provvedimento del granduca di Toscana Pietro Leopoldo (il quale nel 1770, primo in Italia, aveva emesso un decreto di scioglimento delle corporazioni), l'amministrazione austriaca in Lombardia abolì il sistema medievale e rimpiazzò le corporazioni con un Supremo Consiglio di economia, composto di gente più competente e motivata. Le corporazioni rimasero, concludono Montanelli e Gervaso, ma solo di nome. Esse non ebbero più la forza d'impedire quei concentramenti di capitali e di energie che condussero alla nascita dello stabilimento. Il primo, o uno dei primi, fu un filatoio mosso da un mulino ad acqua invece che a mano, impiantato dai fratelli Bianchi a Porta Nuova. Ma la grande novità era che i lavoranti non venivano a portarci il frutto del lavoro fatto a casa con telai di loro proprietà; lo facevano lì in fabbrica coi telai del padrone. Non erano più artigiani. Erano diventati operai.
Ma il grande segreto del primato lombardo che fin d'allora si delineò fu la fusione di classi e la facilità di ricambi. In tutte le regioni italiane i nobili erano occupati in qualcosa, meno che in Lombardia. In Piemonte e a Venezia, dicono i due scrittori, essi svolgevano attività nell'esercito, nella magistratura, nella diplomazia; a Roma erano occupati a servire e a sfruttare il Papa; nel Napoletano stavano nell'anticamera del re a fare i cortigiani; il nobile lombardo non aveva né un Re, né uno Stato, né una Corte. I privilegi che il governo austriaco riconosceva loro erano un cuscino sull'inginocchiatoio di chiesa, uno stemma sulla carrozza, un fiocco sulla testa dei cavalli eccetera. Ecco perché il nobile lombardo ebbe il tempo e lo stimolo per industriarsi e per gettarsi nell'impresa. Mentre altrove la borghesia cercava di nobilitarsi comprando il blasone e adottando il modo di vita degli aristocratici, cioè accettando i valori della società feudale, in Lombardia era la nobiltà che si adeguava alla borghesia, al suo spirito d'iniziativa e al suo slancio imprenditoriale. Così la vittoria della borghesia diventava la vittoria del mondo moderno sugli avanzi di quello medievale. Non senza conseguenze sul piano sociale, perché quello che si delineava era un capitalismo tra i più sfrenati: i vagabondi erano equiparati ai delinquenti, le retribuzioni erano fissate in modo da contenere i salari al livello più basso, la giornata lavorativa durava dall'alba al tramonto, le associazioni dei lavoratori erano proibite.
Ed è anche per questo che Montanelli e Gervaso sono concordi nel dire che la seconda metà del Settecento non fu, per Milano, l'età dell'oro. Ma la Lombardia borghese era l'unica regione italiana in cui si respirasse aria d'Europa. Funzionavano il ricambio delle classi e la circolazione delle idee. Milano fu la prima città ad illuminarsi con un sistema di lampade ad olio sospese che favorivano gli incontri e la vita notturna, così come fu la prima ad adottare la denominazione delle strade e la numerazione delle case. L'istruzione fu strappata al monopolio dei preti e l'imperatore Giuseppe II riuscì a statizzare la scuola elementare. Lungi dall'isolarsi negli studi umanistici, la cultura lombarda comprese la rivoluzione industriale e rispose alle sue sollecitazioni; concretezza e praticità furono le sue caratteristiche. Il teatro che prese il nome da quello della chiesa di Santa Maria della Scala, celebre in tutta Europa per la sua acustica, diventò il Foro, la vetrina e il salotto della mondanità milanese.
Non tutte le riforme introdotte dall'Austria andarono a segno e, per quanto notevole, il processo di sviluppo capitalistico seguitava a trovare sulla sua strada parecchi intralci. Tuttavia il panorama è largamente positivo, dicono Montanelli e Gervaso, specie se rapportato al resto della penisola, e noi abbiamo fatto ricorso agli scritti di questi due autori per evidenziare la distanza che già nel Settecento esisteva fra la società milanese e lombarda e quella meridionale e calabrese in particolare. Per dare un contributo alla conoscenza della storia, ma anche per capire dove nascono le differenze che contraddistinguono le due regioni. Differenze che ancora oggi sono forti e condizionano lo sviluppo.
Anche a Napoli, come a Milano, fu avviata la formazione di un nuovo catasto, che fu detto onciario perché l'imponibile era espresso in once, nome di un'antica moneta di conto, e l'ordine connesso al provvedimento del 1737 fu, secondo Pasquale Villani, il primo serio tentativo di riforma globale intrapreso dalla monarchia borbonica. Sarebbe inesatto parlare di pieno fallimento, aggiunge lo storico, ma "le buone intenzioni di assicurare il sollevamento dei poveri e la giustizia distributiva furono ben lungi dal tradursi in realtà: le esenzioni e i privilegi, la sperequazione tra ricchi e poveri, la conferma del tributo personale sulla testa e sulle braccia dei lavoratori, il complesso e artificioso meccanismo per la ripartizione dei tributi, gli apprezzi sommari e approssimativi dei beni stabili, son tutti elementi che stanno a indicare come il catasto napoletano resti molto inferiore, fin nella concezione, ai quasi contemporanei censimenti fiscali nella Lombardia e nel Piemonte". Mancava, a Napoli, una borghesia cosciente dei suoi autonomi interessi di classe. La prammatica fatta approvare dal Tanucci nel 1738 per limitare la giurisdizione feudale era stata revocata nel 1744, e due anni dopo erano state ridimensionate le funzioni del Supremo Magistrato del Commercio, appena creato nel 1739. E sempre a partire dal 1746 ai Consolati di mare, dislocati in molte province e chiamati a discutere in primo grado di materie di pertinenza delle corti feudali, furono lasciate le sole competenze sul commercio estero. Altre riforme di rilievo riguardarono l'Università (svecchiata di cattedre arcaiche ed arricchita di nuovi insegnamenti) e varie iniziative culturali, culminate con la costruzione del Teatro S. Ferdinando, inaugurato nel 1790, scrive Silvio de Majo, il quale aggiunge che una riforma importante, ma che alla prova dei fatti si rivelò poco valida, riguardò l'apparato militare del Regno, che vide nel 1786 la fondazione dell'Accademia Militare della Nunziatella e di un ospedale militare. In campo fiscale si cercò di dare maggiore efficienza alla riscossione dei tributi istituendo nel 1782 il Supremo Consiglio delle Finanze, e nel 1786 fu creato il Registro dei Contratti per delineare una mappa delle proprietà, delle ipoteche e delle vendite registrate entro i confini del regno. Il Codice marittimo redatto nel 1781 rimase sulla carta, mentre la giustizia civile restò completamente disorganizzata, anche se un piccolo passo avanti fu fatto durante il governo Tanucci, grazie ad una legge che prescriveva la motivazione delle sentenze. In questo contesto i provvedimenti che, tra il 1786 ed il 1788, abolivano alcune imposte sulla carta, sui libri stranieri e sui lavori in ferro, rendevano libera la vendita dell'olio, annullavano le imposte indirette appaltate relative alla seta e allo zafferano ed eliminavano molte altre tasse doganali interne si rivelarono privi di significativi effetti. Come ricorda de Majo, ai molteplici problemi del paese e alle istanze prodotte dagli illuministi il re Ferdinando di Borbone non seppe dare risposte adeguate, ed il processo di riforme che investì il regno tra il 1767 ed il 1789 finì per apparire disorganico e inadeguato.
L'opera di Gaetano Filangieri, oltre a 19 ristampe italiane, avrebbe avuto entro la metà dell'Ottocento 6 edizioni in tedesco, 5 in francese, 5 in spagnolo, 2 in inglese e una ciascuna in polacco, russo, olandese, danese, svedese; complessivamente se ne conoscono oggi ben 68 edizioni. E "ovunque, in Occidente, si guardò a quei volumi come al perfetto manuale del nuovo legislatore illuminista", per usare ancora una volta le parole di Ferrone. Ma Napoli e Milano, il Reame ed il Ducato Lombardo, per le cose che abbiamo scritto, rappresentano due esempi di come le dottrine dell'illuminismo abbiano influito diversamente sul territorio e sulla popolazione, e di come le riforme che tanta parte hanno avuto nel pensiero politico meridionale non siano riuscite a scardinare la struttura di uno Stato che, nonostante tutto, continuava a restare feudale.
Eppure a Napoli nel 1747 era stata pubblicata la prima traduzione italiana in otto tomi della Cyclopaedia dell'inglese Chambers, data alle stampe a Londra nel 1728 e considerata l'ispiratrice della successiva opera di Diderot e D'Alembert in Francia. Da Napoli l'abate Ferdinando Galiani, autore di cinque volumi dal titolo "Trattato della moneta", teneva una corrispondenza con D'Alembert, uno degli autori dell'Enciclopedia francese. E sempre a Napoli, nel 1754, era nata la prima cattedra di Commercio e Meccanica con le lezioni di Antonio Genovesi che anticipavano di anni l'insegnamento di Adam Smith, lo scozzese che con un libro pubblicato nel 1776 fondò una nuova scienza, l'economia politica. La capitale del Regno, nel Settecento, non era solo la patria della sfogliatella o il luogo dove i cuochi dei Borbone perfezionavano il babà modificando una ricetta del re Stanislao di Polonia. C'era una Napoli illuminata, dove operavano avanguardie culturali, letterarie, artistiche. Perché, dunque, il divario con le altre regioni italiane? Perché questo dualismo Nord-Sud che Pasquale Saraceno ha definito insuperabile?
Il razionale pragmatismo lombardo, capace di evitare gli assolutismi dottrinali senza nel contempo rinunciare al fine ultimo dell'incivilimento e dello sviluppo, che sono cose diverse dell'arricchimento, è forse una delle chiavi di lettura dei diversi esiti che il riformismo ha prodotto nelle due aree geografiche. Sintesi mirabile di un concetto di economia che non è solo tecnica, ma metodo per consentire ai cittadini di generare sviluppo e partecipazione e che troviamo nelle opere di Pietro Verri, animatore del giornale milanese Il Caffè e autore di Meditazioni sull'economia politica pubblicato nel 1771, l'illuminista milanese considerato da alcuni studiosi più grande di Adam Smith.
Anche Rosario Villari pensa che squilibri come quello fra Nord e Sud sembrano quasi impossibili da superare, ma poi non esclude che possa venire fuori un atto di volontà nazionale. Da storico - egli aggiunge - vedo forse con maggiore chiarezza la ricchezza di risorse potenziali: risorse intellettuali, umane, di creatività, di impegno, di capacità; l'Italia Meridionale è una società organizzata con una sua forza interna, e nel fututo questa forza potrà venire fuori se si creeranno le condizioni favorevoli.
Torniamo a Filangieri, il quale diceva che la tradizione storica ereditata dal passato era uno strumento di salvaguardia del privilegio, di ingiustizia sociale, di violenza, di infiniti abusi e iniquità, di ostacolo allo sviluppo di una società moderna. E dalle sue pagine lucide e incisive, animate da un appassionato impegno civile, scaturivano, secondo Firpo, molteplici e concrete proposte volte alla costruzione di una sfera pubblica agibile da parte di ogni cittadino, alla tutela della libertà di stampa, alla creazione di un sistema nazionale di istruzione aperto a tutti, alla promozione di una religione civile e patriottica quale strumento di un indispensabile legame comunitario, all'istituzione di un sistema fiscale fondato sulla tassazione progressiva e volto quindi alla redistribuzione del reddito, all'emanazione di leggi penali fondate sul processo accusatorio e in grado di scardinare dalle radici l'iniquità della giustizia feudale e una cultura giuridica fondata sull'arbitrio e la brutalità del potere; prendendo a modello i moderni esiti repubblicani della rivoluzione americana, la cui costituzione riconosceva a ciascuno non solo diritti di libertà e di rappresentanza politica, ma anche quello tutto illuministico di perseguire la propria felicità.
Ma la speranza di costruire una società più giusta e più equa affidandosi al "governo delle leggi" si rivelò per il Sud un'illusione, e con l'esplodere della rivoluzione anche in Italia, e con gli esiti controrivoluzionari del triennio giacobino a Napoli, conclude Firpo, la ripresa delle forze sanfediste e legittimiste nell'età della Restaurazione finì con l'espungere o marginalizzare la grande cultura illuministica della tradizione politica italiana.
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