IL TERREMOTO DEL 1783 IN CALABRIA
(di Armando Orlando)
Nel 1783 un professore di Cambridge, John Michell, pubblicò un saggio sulla rivista della Royal Society in cui sosteneva che una stella di massa e densità sufficientemente grandi avrebbe avuto un campo gravitazionale così forte che neppure la luce sarebbe riuscita a sfuggirne. E' l'idea di quelli che noi oggi chiamiamo "buchi neri", quel vortice cosmico capace di crescere sempre più, inghiottendo altra materia e la luce del suo orizzonte, un fenomeno definito da Piero Bianucci uno dei frutti più curiosi della fisica moderna.
Lo stesso anno, alle ore 12,45 del 5 febbraio, la terra tremò in Calabria ed una prima, forte scossa di due minuti, con epicentro a Terranova, diede inizio ad uno sconvolgimento durato diversi giorni. Le repliche avvennero a Mileto con 154 scosse lievi in circa 18 ore. Seguì la scossa del 6 febbraio al largo tra Scilla e Bagnara, decimo grado, che fece crollare nello Stretto mezza montagna di Campalà, e la massa di terra, cadendo nel mare profondo, causò un moto delle acque che, trasformate in una grande ondata, spazzarono tutto sulla costa. Le repliche furono di 33 scosse in circa 24 ore, sempre a Mileto. Si inserì Catanzaro-Musofalo con una scossa di settimo grado, ed il 7 febbraio una terza scossa, di undicesimo grado con epicentro Soriano, rase al suolo la cittadina. Si inserirono l'area dello Stretto, Castelmonardo, Pianopoli e ancora Catanzaro. Il 1° marzo una scossa di nono grado si abbattè nei pressi di Polia, e le repliche interessarono per 27 giorni l'area di Mileto, Monte Covello e Catanzaro, fino a giungere alla scossa del 28 marzo, un decimo grado con epicentro una contrada tra S. Floro e Borgia, che distrusse Borgia, Cortale, Girifalco, Caraffa di Catanzaro e danneggiò gravemente Maida, Curinga, S. Pietro e Vena di Maida. Complessivamente le scosse furono 939 e si susseguirono per oltre due anni.
I paesi più colpiti furono quelli del versante occidentale dell'Aspromonte, ma il terremoto era stato talmente imponente da dilatare gli effetti ad un territorio vastissimo, verso l'area dello Stretto e verso il Catanzarese. Giovanni Vivenzio, che nella qualità di direttore degli ospedali militari del Regno aveva visitato la regione dopo il sisma, scriveva nel 1788: "In una parola, nel termine di due minuti primi, che durò questo primo orribile terremoto, che formerà epoca nell'Istoria d'Italia, cagionò la quasi totale distruzione dell'ulteriore Calabria: distruzione, che fu indi maggiormente accresciuta dal fuoco, che si accese ne' diroccati paesi, e che per due giorni in alcuni, per tre in altri continuamente vi si mantenne. La prima scossa da sotto in su, fu sì subitanea, che sembrò uno scoppio di sotterranea mina, e in un momento per tutti i paesi di quella prospettiva non si vide che fumo..."
Un autentico cataclisma, scrive Gaetano Cingari, accompagnato da una fortissima mortalità. Morti ce ne furono dappertutto, oltre 30 mila, di cui 630 a Messina e il resto quasi per intero nella Calabria meridionale. Ma se Reggio ne aveva contato 119, alcuni paesi della Piana avevano subìto una vera e propria falcidia. Così Terranova con il 77 per cento di morti, Santa Cristina con il 54, e così altri centri di quell'area, con percentuali dal 40 al 50. Bagnara fu tra le più colpite, il 59 per cento, anche per il concorso del maremoto che accentuò la mortalità; e ciò richiama pure il caso di Scilla, che nella scossa del 5 febbraio aveva perduto 150 abitanti, ma ne perdette ben 3.181 nel maremoto della notte successiva. Purtroppo, dice lo storico reggino, gli scampati avevano cercato riparo soprattutto tra Marina Grande e Chianalea, e qui li aveva sorpresi e decimati il maremoto conseguente ad una nuova scossa.
W. Hamilton, un nobile che visitò i luoghi del disastro nel maggio di quell'anno, in uno scritto pubblicato dalla Stamperia della Rovere di Firenze testimoniò che "la somma totale dei morti nelle due Calabrie e nella Sicilia, per cagione dei soli terremoti, secondo le relazioni inviate all'Uffizio della Segreteria di Stato di Napoli, ascende a 32.367: io però ho buone ragioni per credere, che compresivi gli estranei, il numero dei morti sia considerevolmente maggiore, e che senza esagerazione si possano computare, a mio credere, da 40.000 morti".
E Pietro Colletta, nella sua Storia del Reame di Napoli del 1831, scrisse: "Quando nella estate, per fetore de' cadaveri ed acque stagnanti, meteore insalutari, penurie, dolori, sofferenze, si manifestò ed estese nelle Calabrie morbo epidemico, il quale aggiunse morti alle morti, e travagli ai travagli di quel popolo. Tanto miseramente procedè quell'anno; ed al cominciare del 1784, fermata la terra, spenta l'epidemia, scordati i mali o gli animi rassegnati alle sventure, si volse indietro il pensiero a misurare con freddo calcolo i patiti disastri. In dieci mesi precipitarono duecento tra città e villaggi, trapassarono di molte specie di morte sessantamila calabresi; e in quanto a danni, non bastando l'arte o l'ingegno a sommarli, si dissero meritatamente incalcolabili: furono al giusto i nati, non pochi e maravigliosi i matrimoni, i delitti molti ed atroci; i travagli, le lacrime, infiniti".
Lo scenario di devastazione e di morte durò a lungo e suscitò impressione nei viaggiatori stranieri che in quel periodo erano soliti visitare la Penisola.
Johann Heinrich Bartels, borgomastro di Amburgo, teologo e giurista, in un libro del 1787 che Carlo Carlino ha definito forse il testo più interessante del Settecento riguardante la nostra regione, parlando degli abitanti di Pizzo, scrisse: "Un'altra grande disgrazia causata dal terremoto fu la precarietà delle baracche, dove erano esposti all'umidità e al freddo; la temperatura era terribilmente rigida sia per gli effetti collaterali del terremoto sia per il freddo invernale; questa situazione uccise molti uomini e quasi un terzo della popolazione cadde sotto la falce della morte...Ebbi un senso di tristezza quando al mio arrivo un gruppo di abitanti si riunì intorno a me... Esclamavano quasi in coro 'Abbiamo perso la nostra gioventù migliore'. Poi un vecchio tremante pianse di nuovo i suoi tre figli che la morte gli aveva sottratto; e uno piangeva il fratello perduto, l'altro l'amico scomparso. Più di 1.500 persone furono travolte e la maggior parte di loro erano giovani tra i venti e i trent'anni". E da Seminara annotò: "Più mi addentro nel paese, più aumentano gli orrori della catastrofe. La Calabria si è profondamente inabissata, e qui regna lo spettro della distruzione che supera ogni immaginazione e ci vorranno molti anni prima che la regione si risollevi dai danni causati da questa terribile calamità".
Ed il 2 luglio 1791 Federico Leopoldo von Stolberg iniziò da Amburgo il suo viaggio in Europa. Il conte tedesco arrivò in Italia il 24 ottobre; dopo Genova, Milano, Venezia, Bologna, Firenze e Pisa giunse a Roma, da dove, il 2 febbraio 1792, riprese il cammino verso il Sud. A Napoli si fermò tre mesi, per poi arrivare in Puglia e, finalmente, in Calabria. Nella regione trascorse 13 giorni, dal 17 al 30 maggio 1792, ed una volta concluso il lungo viaggio attraverso la Germania, la Svizzera e l'Italia, Stolberg diede alle stampe un pregevole libro scritto sotto forma epistolare. Sara De Laura, che ha tradotto in italiano il volume, dice che Stolberg si imbattè in una Calabria ancora sconvolta dal terremoto, segnata dalla miseria secolare, corrosa dall'ingiustizia e dal malgoverno. Uno scontro con una realtà inaspettata. Da Catanzaro scrisse: "Gli abitanti a cui è crollata la casa, e quelli che ne temono il crollo per scosse future, si sono costruiti delle piccole casette in un luogo alberato vicino alla vecchia città". Da Monteleone: "Durante il terremoto del 1783 crollò quasi tutta la città. Adesso è composta per la maggior parte di baracche in legno, ma anche di case in calce e mattoni con un'intelaiatura di travi". Dalla nuova Oppido, costruita "a tre miglia dalla antica città, che è completamente crollata; più precisamente è stata inghiottita da una voragine apertasi nella terra": "Il terremoto qui è stato terrificante in quanto le montagne, composte di terra argillosa compatta, hanno fatto resistenza alla forza sotterranea che tiene il terreno unito. Abbiamo visto montagne spaccate in due dalla cima ai piedi, che hanno riempito vecchie valli e ne hanno create delle nuove". Ed ancora: "Alcuni torrenti vennero strappati al loro corso; dei terrapieni, formatisi con lo smottamento della terra, improvvisamente li hanno trasformati in laghi. Questi corsi d'acqua, ormai divisi dal corso originario, hanno provocato il ristagno delle acque, le cui esalazioni mefitiche contagiavano l'aria. Ho visto molti di questi laghi... Il terremoto creò un effetto incredibilmente strano sugli organi umani, tale che nei due anni seguenti le donne non concepirono, oppure ebbero parti prematuri di nascituri morti. Quando generarono nuovamente, molti dei neonati morirono".
Le dimensioni del terremoto furono, dunque, molto ampie e le distruzioni estese ed ingenti. Come abbiamo visto, il ciclo sismico, iniziato nella giornata del 5 febbraio nella Piana di Gioia Tauro e nel versante tirrenico dell'Aspromonte, si era sviluppato col passare del tempo cambiando direzione. I danni agli edifici nella sola Calabria furono calcolati in diverse migliaia di ducati. Effetti devastanti in 182 paesi, scrive Francesco Pugliese, distruzioni in altri 117; fra questi ultimi, 33 dovettero essere ricostruiti in luoghi diversi. Danni incalcolabili subì, ovviamente, il patrimonio artistico e monumenale calabrese, e fra tutti, il convento domenicano di Soriano - primo del Regno per rendita e prestigio - che disponeva di una tipografia e di una delle più importanti biblioteche di tutto il meridione d'Italia e che patrocinava ogni anno una fiera del libro; e poi le cattedrali di Mileto, Squillace, Nicastro, Oppido, Catanzaro, Reggio, e la Certosa di Serra San Bruno, l'abbazia benedettina della Trinità a Mileto, il monastero basiliano di Sinopoli e la chiesa di Santa Maria della Valle di Galatro.
Lo sconvolgimento fu così violento da provocare gravi dissesti oroidrografici, facendo spuntare addirittura laghi e laghetti. "Tutti i laghi prodotti dal tremuoto ascendono tra grandi e piccoli nella ulteriore Calabria al numero di cinquanta" scrive Vivenzio; di fatto, precisa Cingari, erano stati di più, se vi si aggiungono quelli minori spuntati qua e là a seguito di grandi frane e di rottura di alvei superficiali o sotterranei. L'attività sismica arrivò a mutare i tratti del territorio calabrese, colpito da frane colossali che si muovevano continuamente, da spaccature lunghe e profonde, da avvallamenti e sconvolgimenti, e lo scorrimento a valle del terreno segnò profondamente la vita di molte comunità.
"Lo spazio e il suo uso - ha scritto Piero Bevilacqua - erano dunque assai spesso condizionati, quando non dominati, dal territorio e dai suoi incontrollabili eventi... E così il tempo, la velocità dei trasporti, della circolazione delle merci, del denaro, degli scambi fra gli uomini, il tempo del mercato come delle idee aveva un ritmo scandito dalle possibilità materali e tecniche consentite da quegli spazi". La catastrofe determinò pure un rivolgimento sociale della comunità. "D'un colpo - continua lo storico - la complessa normalità dei rapporti consolidati era spazzata via. L'organizzazione familiare, i rapporti di proprietà, le gerarchie sociali e ideologiche, le forme del diritto, le consuetudini mai discusse, i quadri più statici della mentalità collettiva, venivano inesorabilmente travolti..."
"Qualcuno, condizionato dall'economicismo dei nostri tempi, può pensare che i terremoti abbiano tolto alla Calabria una parte delle sue attrattive turistiche" ha scritto di recente Domenico Ficarra. "In effetti, il danno è ben maggiore se la progressiva scomparsa dei nostri monumenti contribuisce alla perdita della memoria storica e, quindi, della nostra identità regionale: se cioè una vanificazione fisica produce una vanificazione psicologica e spirituale... Ogni popolo è il risultato del suo processo storico, per cui perdere il rapporto con le proprie radici impedisce di conoscere se stessi, di autodefinirsi in rapporto al tempo ed allo spazio, può produrre cioè una crisi esistenzale".
Il sisma del 1783 contribuì a rendere più rozzi i costumi dei Calabresi, favorendo un aumento delle azioni criminali, e la successiva soppressione degli antichi enti religiosi inasprì la lotta per la sopravvivenza, visto che nel passato questi enti erano stati fornitori di redditi integrativi alle masse popolari, come ricorda Augusto Placanica, il quale aggiunge: "Quel che stupiva i forestieri era la grande, e spesso giustificata, diffusione della violenza: lo stato, la giustizia, il fisco erano quasi in gara con la feudalità nell'alimentare abusi d'ogni sorta: se gli omicidi aumentavano, è anche vero che spesso gli uomini si gettavano alla campagna per non avere ormai più nulla da perdere: gli episodi di violenza, di corruzione, di abusi, di vendette, erano tanti, e anche tali, da costruire un quadro della Calabria e dei calabresi estremamente inquietante".
Si trattava, continua lo studioso, degli antichi nodi irrisolti, tra i quali primeggiava l'eccezionale disparità nella distribuzione delle ricchezze, unita all'evoluzione tumultuosa assai recente: "Soprattutto nella Calabria meridionale, agli antichi enti ecclesiastici era subentrata una nuova classe di possidenti borghesi, che inaugurarono un'amministrazione ben più impietosa e programmaticamente incurante d'altro che non fosse gestione di rendite e profitti".
Giuseppe Spiriti, nelle sue Riflessioni ecomico-politiche d'un cittadino relative alle due province di Calabria, pubblicate a Napoli nel 1793, parlando dei delitti scrisse che "la loro atrocità induce sul principio certe impressioni di orrore ne' cuori umani, ma se quelle impressioni diventano molto spesse, questi cuori si incalliranno a poco a poco, e cominceranno a guardare con indifferenza non solo ma con piacere ancora gli eccessi più detestabili. Gli uomini in queste circostanze perderanno la loro natura, che diverrà simile a quella de' leoni, e degli tigri". L'indagine dello Spiriti, aggiunge Giuseppe Brasacchio, intesa a rilevare gli omicidi commessi nelle province calabresi, ci offre dati agghiaccianti e tali da considerare la delinquenza un vero e proprio freno all'incremento demografico: nell'Udienza di Cosenza, nel decennio 1782-1792, risultano commessi ben 3.095 omicidi, con una media annua di 309; nella Calabria Ultra il numero sale nel decennio a 5.800, con una media di 580 all'anno. Ma se si tiene conto che una barriera di tenebre ed una enorme confusione occultano molti delitti, la media può essere fissata in circa mille omicidi all'anno.
Umberto Caldora è indotto a pensare che si sia esagerato per ciò che riguarda la criminalità in Calabria, ma il fenomeno ha caratterizzato quell'epoca, ed ancora oggi, a distanza di oltre due secoli, gli omicidi continuano ad influire negativamente sullo sviluppo della regione. Basti pensare che in soli 30 mesi, tra il secondo semestre 2001 e dicembre 2003, sono state 196 le delittuosità registrate in Calabria: 105 omicidi, 45 tentati omicidi, 44 feriti e 2 gambizzati, oltre ad 8 casi di lupara bianca. La provincia con il più alto numero di omicidi è stata Reggio Calabria, seguita da Cosenza, Catanzaro, Vibo e poi Crotone. E al 21 ottobre 2003 nelle varie carceri italiane erano detenuti 3.253 nati nella regione Calabria, di cui 60 donne, con un'età compresa tra tra i 18 e i 40 anni.
La notizia del disastro del 1783, considerato la più grande catastrofe sismica che si sia mai abbattuta in Calabria, giunse a Napoli il 14 febbraio, portata dai marinai della fregata Santa Dorotea della flotta militare borbonica, che era alla fonda nel porto di Messina. E in verità, testimonia Cingari, la risposta del Re e del governo era stata più che rapida, se il giorno successivo il vicario generale maresciallo Francesco Pignatelli, principe di Strongoli, dotato di poteri assoluti e di una somma di 100 mila ducati per il pronto intervento, poteva partire per il luogo del disastro, portandosi dietro tende, generi di prima necessità, pece per bruciare i cadaveri, tecnici ed ingegneri famosi come il Winspeare e il La Wega.
Accompagnato da truppe scelte, scrive Placanica, il vicario generale del re fissò la sua sede a Monteleone, concesse la libertà ai carcerati più buoni per poi impiegarli nella ricostruzione, fece trasportare a Napoli gli arredi d'oro e d'argento delle chiese, per essere fusi ed usarne i proventi a ristoro dei danni.
Oltre all'immediato invio del Pignatelli, il sovrano ordinò un'imposta straordinaria di 1.200.000 ducati, decretò un indulto generale e dispose il ritorno dei feudatari nelle loro terre, per soccorrere la popolazione colpita. Ma il terrificante disastro richiedeva mezzi eccezionali e ingentissimi, scrive Cingari, e le prime relazioni avvertivano che la stessa emergenza poneva una somma immane di problemi.
Fu allora che si fece strada il progetto di una sorta di riforma agraria fondata sull'esproprio delle proprietà ecclesiastiche. Il papa Pio VI firmò, il 27 maggio 1784, il Breve con il quale si decreteva la soppressione di tutti i luoghi pii e degli ordini religiosi della Calabria Ultra, e furono avviate le pratiche per incamerare le proprietà dei conventi e dei monasteri con meno di 12 religiosi, le proprietà delle congreghe laiche e le rendite delle abbazie e delle mense vescovili vacanti.
Un programma del genere, scrive Placanica, era di un'audacia e di un'ambizione senza pari, e, per l'estensione del regime di sequestro e privatizzazione massiccia, non aveva precedenti nella storia d'Europa. La Calabria divenne un laboratorio politico. Schiere di avvocati pagati dallo Stato furono chiamati ad assistere gratuitamente i Comuni nelle liti contro i feudatari e contro gli usurpatori dei demani, mentre i beni di tutti gli enti ecclesiastici - con esclusione delle parrocchie non vacanti, delle commende e delle mense vescovili - dovevano essere posti sotto sequestro, amministrati, censiti, apprezzati e offerti in vendita col preciso intento di incamerare contante per la ricostruzione e, contemporaneamente, di fornire terra ai contadini nullatenenti "per accrescersi il numero de' proprietari". Era, ricorda Placanica, la concreta messa in opera del programma genovesiano, ed alla sua esecuzione fu preposto un esercito di quasi trecento funzionari, alle dipendenze del Ministero delle Finanze, con i più alti gradi provenienti da Napoli.
Nacque così la Casa Sacra, chiamata ad amministrare le risorse finanziarie provenienti dalla vendita e dall'affitto dei beni ecclesiastici di tutta la Calabria Ultra, con il compito di favorire la formazione di una nuova proprietà coltivatrice e, nel contempo, provvedere alla ricostruzione dei paesi distrutti dal terremoto. Istituito a Catanzaro con decreto del 4 giugno 1784, l'organismo si insediò nel mese di luglio sotto la guida dello stesso vicario generale Francesco Pignatelli, il quale divise la provincia in circa 40 riparti e creò gli ispettorati di Reggio e Monteleone, ai quali si aggiunsero, nel 1786, quelli di Catanzaro e Gerace.
I conventi assoggettati a regime di sequestro, scrive Augusto Placanica, furono 250, con 3.300 tra frati e suore, 2.000 gli altri enti (chiese non parrocchiali, confraternite, congreghe, ma soprattutto cappelle), per un totale di 28.000 fondi rustici e 58.000 partite di credito, rappresentate da censi, canoni e diritti reali di vario tipo. Dei fondi posti sul mercato, continua lo studioso, 5.500 furono venduti all'asta ed entrarono in possesso di quasi 3.000 compratori, con un esborso di 1.600.000 ducati.
Furono redatti i piani urbanistici che prevedevano il riassetto degli abitati, scrive Giuseppe Brasacchio, e gli interventi della Cassa Sacra si articolarono in più direzioni; ad immediato sollievo della popolazione, che viveva in miserabili capanne e baracche improvvisate, fu concesso un sussidio per il restauro delle case rovinate, ma la somma elargita - 100 mila ducati - fu ben poca cosa di fronte alle necessità del momento. Per la ricostruzione delle sole chiese parrocchiali furono stanziati 300 mila ducati; per il restauro delle torri costiere sorte a difesa delle incursioni dei Barbareschi furono spesi 45 mila ducati. Più consistenti gli interventi per bonificare la piana di Rosarno, dove esistevano ben 200 laghi ed acquitrini che infestavano la zona e la rendevano totalmente disabitata; progettista e direttore era l'idraulico Ignazio Stilo, che guidava i lavori di bonifica eseguiti da duemila braccianti cosentini impegnati in opere di colmata, di drenaggio e di costruzione di collettori che durarono fino al 1789. Con il contributo dei Comuni furono potenziati gli ospizi di Reggio, Gerace, Crotone, Seminara, Sinopoli, Melicuccà, Mileto, Tropea e Pizzo. Per assicurare l'attraversamento dei corsi d'acqua furono costruiti ponti a Crotone, Arena, Galatro, Pizzoni, mentre un servizio di traghetto con carri e barche venne istituito a Tacina, Amato, Angitola, Petrace e Rosarno.
Nel 1785 fu fondato un Ospizio centrale per raccogliere i numerosi fanciulli rimasti senza genitori a causa del terremoto e gli altrettanto numerosi trovatelli frutto della coabitazione alla quale erano costretti gli abitanti dei luoghi distrutti.
Nel 1787 un dispacco del re Ferdinando istituiva scuole normali a Crotone, Stalettì, Stilo, Roccella, Scilla, Bagnara, Parghelia, Pizzo e Nicastro, mentre al Liceo di Catanzaro fu inviato come direttore l'abate Gregorio Aracri, un calabrese di Stalettì che si era distinto nel campo della filosofia, della matematica e della letteratura e che a Napoli era amico di Pagano e Filangieri. A Reggio fu istituito un Ginnasio con le cattedre di matematica e fisica, logica metafisica e diritto di natura, giurisprudenza civile e canonica, teologia e morale, ed annessa alla scuola venne creata una biblioteca che dava ospitalità ai libri raccolti nei monasteri soppressi. E con l'istituzione della Cassa Sacra il terremoto in Calabria, dopo aver provocato distruzione e morte, diventò un'occasione di mutamento.
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