IL VICEREGNO AUSTRIACO NELLA STORIA DELLA CALABRIA

(di Armando Orlando)

 

            In Inghilterra, nel corso del Seicento, l'aristocrazia terriera prese le redini dello sviluppo capitalistico e garantì la sovranità del Parlamento, ridimensionando le prerogative della monarchia, e Londra - ricostruita in pietra, in mattoni e con larghe strade dopo il grande incendio del 1666, che in soli cinque giorni distrusse 13 mila case e 87 chiese - diventò una capitale moderna.

            In Francia, invece, i nobili ricercarono l'appoggio della Corona per controllare i ceti inferiori e per questo rimasero sotto l'ombrello protettivo della dinastia regnante, rallentando il processo di democratizzazione delle strutture politiche e sociali del Paese; Parigi continuò ad avere strade e stradine piuttosto strette, testimonia Piero Melograni, e soltanto pochi viali erano larghi una trentina di metri.

            La Spagna, in quell'epoca, era ancora un paese importante; continuava a mantenere il controllo della penisola italiana, ma  retrocedeva a potenza di secondo ordine e coinvolgeva nella decadenza anche il Ducato di Milano ed il Viceregno napoletano.

            Nello scenario europeo dei primi anni del Settecento il Viceregno era perciò un paese marginale, una provincia che assisteva passivamente allo scontro tra gli Asburgo d'Austria ed i  Borbone di Francia per la successione sul trono di Spagna.

            Erano tempi in cui  i regni di Scozia e Inghilterra si univano per dar vita alla Gran Bretagna, la Russia di Pietro il Grande si apriva alla civiltà europea, Pietro Micca si sacrificava nella difesa di Torino contro i Francesi e, qualche anno dopo, il giovane Balilla dava inizio all'insurrezione popolare destinata a liberare Genova dagli Austriaci. Da Messina l'architetto Filippo Juvara si trasferiva in Piemonte al seguito di Vittorio Amedeo di Savoia e partecipava a Torino alla costruzione della Basilica di Superga.

            A Madrid i Borbone, con Filippo duca d'Angiò, avevano sostituito gli Asburgo sul trono di Spagna, realizzando così il sogno del Re Sole, ma la Francia era uscita dal conflitto  notevolmente ridimensionata come potenza navale, ed era stata costretta a cedere  i possedimenti canadesi della Nuova Scozia e Terranova all'Inghilterra, la quale strappava pure Gibilterra e l'isola di  Minorca alla Spagna e diventava la padrona incontrastata delle vie di comunicazione tra il vecchio ed il nuovo continente.

            Fra tutte le potenze europee, salvo l'Olanda, dove in seguito alla rivoluzione democratica del calvinismo il potere è scivolato nelle mani del Parlamento,

l'Inghilterra è l'unica che agisce in base ai suoi interessi nazionali invece che a quelli dinastici, scrive Indro Montanelli. Il Re Sole ha messo a soqquadro il Continente per procurare troni alla sua famiglia, i Borbone. Gli Asburgo hanno fatto altrettanto. I Savoia non hanno avuto di mira che la corona reale, e la ottengono con la Sicilia. L'Inghilterra va al sodo. Non corre dietro ai pennacchi della grandezza; vuole la padronanza sui mari - continua Montanelli - perché i mari sono, per la nazione, la sicurezza e la ricchezza. L'Asburgo vuole aggiungere il Belgio ai gioielli della sua corona? Se lo prenda. Ma con l'impegno che resti spalancato alle flotte e alle esportazioni britanniche. E' questa preminenza del pubblico interesse sull'interesse dinastico, conclude il giornalista, che rende così efficiente la politica inglese.

            In questo contesto  gli Asburgo, al termine della guerra di successione durata dal 1701 al 1713,  persero la posta principale, che era la corona di Spagna, ma il loro Stato principale, l'Austria, guadagnò molti altri territori, perché si vedeva riconosciuti il dominio sulle Fiandre ed il predominio in Italia, dove controllò il Ducato di Milano, la Sardegna, lo Stato dei Presidi ed il Regno di Napoli.

            La storia della Calabria cominciò così ad intrecciarsi con le vicende degli Asburgo d'Austria, mentre si realizzava nel cuore dell'Europa il sogno di Massimiliano I d'Asburgo, uno degli ultimi cavalieri del Medioevo ed uno dei primi uomini del Rinascimento, l'imperatore che aveva governato il  Sacro Romano Impero dal 1493 al 1519 e che aveva avviato l'Austria verso il superamento delle strutture feudali e verso la formazione dello stato unitario moderno, facendo di quella nazione una forza politica di dimensione europea. A seguito del matrimonio con Maria di Borgogna, figlia di Carlo il Temerario, Massimiliano era entrato in possesso dei Paesi Bassi e, perseguendo l'obiettivo di far grande l'Austria, aveva esteso il suo dominio sul Tirolo, nel Trentino e verso l'Adriatico fino a Gorizia. Accentrando nelle sue mani tutti i possessi asburgici, era riuscito ad assicurare alla Casa d'Austria la via della penetrazione nella penisola iberica facendo sposare al figlio Filippo la principessa Giovanna d'Aragona, erede di Ferdinando d'Aragona e di Isabella di Castiglia, i sovrani che avevano unificato la Spagna e che avevano favorito la spedizione di Cristoforo Colombo verso le Americhe.

            In Oriente, attraverso importanti legami matrimoniali, Massimiliano era riuscito a mettere un'ipoteca anche sui regni di Ungheria e di Boemia, ed iniziò allora per la capitale Vienna un lungo esperimento di governo plurinazionale, portato avanti da una Casa regnante destinata a guidare l'impero austro-ungarico fino al termine della prima guerra mondiale, con l'ultimo imperatore, Carlo d'Asburgo, morto in esilio nell'isola portoghese di Madeira ed avviato verso l'onore degli altari, visto che proprio di recente, nel mese di aprile del 2003, la Congregazione per le cause dei Santi, presieduta da Giovanni Paolo II, ne ha decretato "le virtù eroiche".

            La famiglia, originaria dell'Alsazia, aveva preso il nome da un castello fatto costruire nei pressi di Zurigo da Werner, vescovo di Strasburgo, ed aveva iniziato la sua ascesa dopo il tramonto della Casa di Svevia, con Rodolfo re di Germania nel 1273. A seguito del matrimonio di Filippo il Bello con Giovanna la Pazza nacquero, allora, i due rami di Spagna e d'Austria, e l'apogeo della dinastia asburgica fu raggiunto dopo la scomparsa di Massimiliano, con il nipote Carlo, il quale nel 1515 entrò in possesso dei Paesi Bassi, nel 1516 ereditò la corona di Madrid assieme ai possedimenti spagnoli in Italia e nelle Americhe, e nel 1519, alla morte del nonno, ottenne il dominio dell'Austria e delle sue terre. Divenuto imperatore con il nome di Carlo V grazie al favore della nobiltà germanica e con l'appoggio dell'alta finanza, rappresentata dalla potente famiglia dei Fugger, il figlio di Filippo e di Giovanna unì i vasti possedimenti di Vienna alla corona di Spagna, e di colpo diventò il più potente sovrano dell'Europa.

            Da allora, e per un secolo e mezzo, gli Asburgo dovettero difendersi contro la spinta verso occidente esercitata dagli Osmani, la dinastia che, dopo la conquista di Costantinopoli, aveva spinto i Turchi in Europa orientale tentando ripetutamente di occupare l'intera penisola balcanica. L'Austria subentrò così a Venezia nella tradizionale funzione di barriera europea contro l'impero turco e l'Europa, perduto il "secondo occhio della Cristianità"  rappresentato dalla capitale dell'Impero d'Oriente, vide modificare anche sul piano fisico la sua concezione: nuove nazioni si erano poste in difesa della coscienza cristiana, e dal primo assedio di Vienna nel 1529 - effettuato dai Turchi di Solimano II - fino all'assedio del 1683 - che durò due mesi e fu spezzato grazie all'intervento del re di Polonia e del duca Carlo di Lorena - i popoli di frontiera furono accolti nella comunità occidentale.

            Nel 1717, conquistando Belgrado ed arrivando alle Porte di Ferro, la gola formata dal Danubio che separa i Carpazi dai Balcani, la dinastia degli Asburgo portò a compimento la sua missione di salvatrice della cristianità, e come le invasioni cosiddette barbariche molti secoli prima avevano ravvicinato i popoli germanici agli elementi occidentali del vecchio Impero, così ora l'Austria si affermava come testa di ponte della civiltà germanica verso i Balcani. Allora l'Ungheria e la Transilvania, che si erano distinte contro il dilagare del pericolo turco, e la Polonia, baluardo del mondo cristiano contro i Tartari, divennero "Europa".

            La tradizione religiosa cristiana e l'azione del pontificato romano erano state le forze che avevano determinato l'unità dell'Europa medioevale. Poi la Riforma aveva rotto l'unità religiosa ed i contenuti comuni del tessuto unitario erano divenuti di ordine squisitamente politico, con un Machiavelli che contrapponeva l'Europa delle repubbliche e delle monarchie all'Asia del dispotismo dove vi era "un principe e tutti gli altri servi". E l'idea d'Europa cominciò ad identificarsi sempre più con il concetto stesso di civiltà, con la città chiamata a costituire il fulcro di tutta la civiltà europea e considerata al centro del processo di incivilimento umano. Una città che - scrive Raffaello Morghen  - rappresentò in tutte le epoche il passaggio dall'economia pastorale a quella agricola, il sorgere dell'industria e del commercio, un preciso ordinamento politico-giuridico, la continuità di una comune tradizione religiosa, il passaggio dalla vita del clan e delle tribù a quella dello stato. Un'idea d'Europa in continua evoluzione, dunque, quella vigente all'epoca della resistenza occidentale all'invadenza dei Turchi; un'idea che si affermerà come concezione "di un grande corpo civile, culturalmente uno, politicamente diviso in tanti stati, ma tutti legati da un continuo, incessante intreccio di rapporti, che si esprimevano in un diritto pubblico europeo e in una dottrina dell'equilibrio; un corpo che aveva usi, costumi e particolarità di vita tutti propri; un corpo che la scienza conduceva innanzi, sulla via del progresso", per dirla con le  parole di un grande storico, Federico Chabod.

            Un'idea d'Europa che si dipana nei secoli e che oggi si rafforza in virtù di avvenimenti quanto mai attuali, trovando corpo e sostanza sul piano della sicurezza e della pace e sul piano politico ed economico. Tant'è vero che proprio Ungheria e Polonia  fanno parte già dal 1999 della più potente alleanza militare regionale del mondo - la NATO - e, assieme ad altre nazioni, si accingono ora ad entrare nel Consiglio d'Europa, secondo un programma di allargamento che vede impegnato in prima persona il presidente della Commissione Romano Prodi. Mentre Giovanni Paolo II, il Papa polacco che ha impresso una svolta decisiva alla dottrina ed alla politica della Chiesa Cattolica, dice che "Questo Continente potrà arricchirsi di tradizioni culturali e religiose di nazioni che ci hanno lasciato un prezioso patrimonio comune di civiltà". E tutto questo dimostra come l'attualità del tempo moderno si saldi con le vicende e con la storia del passato.

            E sempre in questo contesto l'Europa conobbe un ventennio di pace, durante il quale la Sardegna fu ceduta ai Savoia, che vi trasferirono il titolo di re, e la Sicilia tornò - come Napoli - sotto la sovranità dell'imperatore Carlo VI della Casa d'Austria. Fin dai primi giorni del dominio, dal maggio del 1720, l'isola conobbe il rigore austriaco ed il luogotenente imperiale estese alla Sicilia il valore nominale della moneta napoletana ed impose la confisca di tutte le armi.

            Il Mezzogiorno d'Italia continuava così ad essere un  viceregno, passato dal ramo asburgico dei re di Spagna a quello imperiale d'Austria, e Vienna esercitò il suo governo nelle terre del Sud dal 1707 al 1734. La leadership di questa operazione, scrive Galasso, fu dei "togati", ed il periodo austriaco segnò l'apice delle fortune del "ceto civile", affermatosi  verso la fine del Seicento ma ancora portatore di interessi corporativi, legati prevalentemente alla rendita fondiaria.

            Il governo nel periodo austriaco, però, non si differenziò nella sostanza da quello spagnolo. Nelle istruzioni inviate dall'imperatore Carlo VI d'Asburgo al primo viceré Conte Daun, infatti, venne chiaramente chiesto di non modificare le istituzioni e l'ordinamento amministrativo ereditati dagli Spagnoli. Venne ridotto, comunque, il potere del viceré e molte decisioni furono accentrate a Vienna. Non mancarono, scrive Giuseppe Brasacchio, sforzi per ristrutturare e rendere più efficienti gli organi amministrativi, giudiziari e finanziari, si pungolò la burocrazia per una maggiore funzionalità nell'amministrazione della giustizia, si affidarono nuove competenze e responsabilità alla classe dirigente dello Stato.

            Tra il 1708 ed il 1709 furono decretati i sequestri delle rendite dei benefici ecclesiastici e dei forestieri residenti fuori del Regno, ed il provvedimento segnò il primo movimento anticuriale che, scrive Brasacchio, avrà nel corso della seconda metà del Settecento ben altri sviluppi. Nel 1709 l'arrendamento del tabacco tornò allo Stato. La Giunta di Commercio, un'organismo di recente istituzione alle dirette dipendenze della Corte di Vienna, in una relazione del 1714 sottolineò l'urgenza di incrementare la produzione agricola e manufatturiera, di allacciare rapporti commerciali con il Levante e con i paesi dell'Europa del Nord, di snellire le pratiche burocratiche e fiscali e di arrivare a trattati di pace con i Turchi per avere maggiore libertà negli scambi. L'arte della seta, inoltre, "decaduta in compassionevole destinazione", doveva essere risollevata per strappare dall'ozio e dalla miseria le classi più povere della popolazione.

            Nel 1718 fu firmata la pace con i rappresentanti dell'Impero Ottomano;  nel 1726 furono avviati una numerazione ed un nuovo catasto, al fine di adeguare i tributi alla superficie dei terreni e al reddito dei cittadini; nel 1728 fu istituita una Giunta del buon Governo per avere un quadro chiaro delle condizioni delle Università, "ridotte in istato assai compassionevole, e quasi che impotenti a soddisfare la Regia Corte ed i loro creditori".

            Perequazione fiscale, snellimento ed efficienza dell'apparato burocratico, catasto, numerazione dei fuochi, riordino delle finanze nei Comuni, politica commerciale ed estera, pace con i Turchi costituirono, ricorda Brasacchio, le iniziative del governo austriaco intese a migliorare le strutture del vecchio viceregno spagnolo. Molti provvedimenti, però,  rimasero sulla carta per l'avversione degli interessati e per il sopraggiungere di una nuova guerra. I commerci non subirono benefici;  a Reggio il contrabbando della seta raggiunse livelli elevati con la complicità del clero locale; a Longobucco e a San Donato continuarono, ma con poco successo, le ricerce minerarie per l'estrazione di piombo, rame, ferro e argento; ed il deficit del bilancio statale aumentò progressivamente. L'opposizione dei capitalisti del Regno e la resistenza della classe degli arrendatori facevano la loro parte, e la pressione fiscale, il cui peso ricadeva sulla popolazione più povera tramite i donativi, aggravò lo stato di miseria delle province.

            D'altra parte l'entrata degli Austriaci nel Regno  non sempre era stata accettata con simpatia. A Cosenza, per esempio, quando fu nominato Vicario Generale il conte di Navarrete, un manipolo di cittadini armati prese d'assalto la Regia Udienza, liberò i detenuti e, cresciuta di numero, la folla si abbandonò alla distruzione di una quantità enorme di materiale d'archivio riguardante processi civili e penali, pergamene, registri e scritture di grande valore. Al grido di Viva l'Infante Carlo e dietro un ritratto di Filippo V Borbone re di Spagna, gli armati distrussero la casa di un napoletano che aveva in affitto la Regia Gabella e poi si diressero verso il Palazzo dell'Arcivescovo; ci furono scontri armati ed i rivoltosi, dopo le prime perdite, si dispersero.

            Tra il 1721 ed il 1722, ricorda Brasacchio, in Calabria gruppi di contadini armati, assieme ad elementi del popolo grasso delle università, manifestarono il malcontento a Reggio e Tropea. Nella città dello Stretto duemila persone, spalleggiate dai contadini di alcuni quartieri periferici, presero d'assalto la casa del Governatore e solo l'intervento del comandante della Piazza militare scongiurò il dilagare dei disordini. Al termine della manifestazione molti cittadini furono processati e gli amministratori in carica furono condotti in prigione nell'isola di Ischia.

            Le iniziative del governo austriaco tese a migliorare la struttura del vecchio viceregno spagnolo furono numerose, ma destinate a rimanere a livello di intenzioni. La feudalità era ancora potente, e continuavano il disordine amministrativo e gli abusi contro le classi più deboli.

            Il libro di Pietro Moretti dal titolo "Immagine di una società in crisi" offre uno spaccato significativo su come una città, Cosenza, e su come la sua provincia vissero il cambio di dominio all'inizio di un secolo, il Settecento, ricco di fermenti e di avvenimenti risolutori per molti problemi del genere umano.

            Il potere feudale era ancora saldo nelle mani della nobiltà, una delle più cospicue del Regno, com'è stata definita nel 1697 da una relazione del Consiglio Collaterale. Baroni riottosi, scrive Moretti, strenui difensori dei propri diritti e offensori degli altri. I signori, dice il ricercatore universitario, continuavano ad esercitare la funzione giurisdizionale, il famoso imperio mero e misto concesso alle corti baronali al tempo degli Aragnesi, con il conseguente diritto di vita e di morte sui vassalli. Il Preside, emanazione diretta del potere centrale, esercitava la sua autorità su tutto il territorio della Provincia e controllava le corti baronali; egli , inoltre, costituiva i tribunali di seconda istanza dopo i giudici locali, siano essi feudali o statali, ed interveniva pure nel settore dell'annona, divenendo arbitro del raccolto e della distribuzione dei prodotti agricoli. Il ceto medio era composto da notai, medici, dottori fisici, mercanti, ufficiali regi, speculatori ed avvocati, mentre il ceto più basso era composto dal popolo cittadino e dai contadini urbanizzati, bracciali e venditori di foglia.

            Anche l'Arrendatore, in Cosenza, godeva di privilegi, esercitava funzioni tipiche del potere esecutivo, aveva al seguito schiere di armati con i quali controllare la riscossione dei diritti a lui dovuti; mentre continuava il fenomeno dei chierici selvaggi, di coloro, cioè, che avevano il privilegio di vestire l'abito ecclesiastico nonostante avessero moglie e figli, ed erano, per questo, esenti da imposte e gabelle. I casali di Dipignano nel 1694 e di Malito nel 1701 lamentavano l'aggravarsi dell'indebitamento comunale "per li pesi fiscali" a causa delle "continue ordinazioni di clerici". Per limitare il potere dei chierici si erano svolti a Cosenza numerosi sinodi. Quello del 1707 aveva ribadito con forza il divieto di portare armi ed aveva vietato "il gioco d'azzardo, il tener presso di sè donne se non congiunte di primo o secondo grado, aver alcuna comunicazione epistolare con educande e pene severissime saranno contro i rapitori di monache".

            La giurisdizione ecclesiastica, però, si contrapponeva spesso a quella laica, e ciò contribuì a creare "strumenti che insinuano all'interno del tessuto connettivo demaniale vere e proprie zone protette, impermeabili al giudice e alla burocrazia regia, e che spesso, più della originaria funzione di difensori del debole e dell'oppresso, appaiono costituire un bastione della criminalità comune o una protezione all'uso deleterio del privilegio". Per questo  nel periodo a cavallo tra i due secoli, la Chiesa a Cosenza "sembra il naturale rifugio dell'assassino, del ladro, del violento, del fallito e di chi medita vendetta". Dalla sua posizione vantaggiosa, continua Moretti, l'istituzione ecclesiastica ha condotto l'attacco ad alcune istituzioni prettamente cittadine, particolarmente nel periodo di indebolimento della feudalità. La longa manus ecclesiastica si estese anche su congregazioni e confraternite: l'assistente spirituale di queste, con la possibilità di intevento con censura e con poteri di controllo sulla cassa comune, rivestì un ruolo importante in seno all'organizzazione. Fenomeno non secondario in un ambiente dove tali istituti rappresentarono gli unici momenti aggreganti per artigiani e mastri.

            Una testimonianza dell'arcivescovo Gennaro Sanfelice, lasciata a pochi anni dall'avvento del nuovo secolo, mette in evidenza la drammaticità delle condizioni di vita dei cittadini: "...Una numerosità grande di persone povere furono astretti dalla necessità a cibarsi d'erbe crude... ne seguirono... la morte di moltitudine di persone di ogni ceto e qualità... e la morte di centinaia e centinaia di huomini che attendono alle masserie e colture di altri beni rurali". Una condizione aggravata dalle imposizioni fiscali, che arrivarono a creare persino una tassa funeraria; le conseguenze di un tale comportamento, scrive Moretti, sono state deleterie: cadaveri sono stati portati di nascosto nei casali e i poveri sono rimasti insepolti. A tutto questo si è giunti, conclude Moretti, per "haver voluto succhiare il sangue dei vivi per seppellire i defunti", come riporta un atto del notaio Conti del 1691.  

            Forse è anche per tutto questo che i ventisette anni di viceregno austriaco lasciarono immutato l'assetto feudale, politico ed amministrativo del meridione italiano, come osservato da Brasacchio, ma è doveroso riconoscere che il velleitarismo riformistico ed i fermenti culturali maturati in quell'epoca costituirono l'attivo di una eredità i cui frutti raccoglieranno i primi Borbone.

 


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