LEREDITA' SPAGNOLA NELLA STORIA DELLA CALABRIA
(di Armando Orlando)
"Alla duplice esigenza, da cui era nato, la protezione del territorio e la sottomissione del baronaggio politico alla sovranità dello stato, non fallì il viceregno, cioè il governo spagnolo dell'Italia meridionale"... così scrive Benedetto Croce nella sua Storia del Regno di Napoli, pubblicata la prima volta nel 1925 con l'avvertenza dello stesso autore a leggere il racconto, "che forse vi aiuterà a meglio intendere e a meglio giudicare taluni punti non bene chiariti". E questo doppio ufficio storico - continua Croce - come spiega la sua origine, così rende ragione della lunga sua durata.
Infatti i tentativi di conquista portati avanti dalla Francia furono sempre fronteggiati con successo, e la minaccia turca fu respinta dalle operazioni militari nel Mediterraneo, che determinarono una lunga serie di avvenimenti: l'occupazione di Tripoli nel 1510 e la conquista di Tunisi nel 1535 (contro 80.000 uomini del pirata Barbarossa combatterono 25.000 alleati imperiali, spagnoli, italiani e tedeschi al comando dell'imperatore Carlo V ed in sottordine dell'ammiraglio Andrea Doria e del Marchese Del Vasto), e poi ancora la ripresa di Tripoli nel 1560 e di Tunisi nel 1574, riconquistata all'Islam, quest'ultima, da una grande flotta turca al comando di un pirata di origini calabresi, Gian Luigi Galeni, nato nelle campagne di Isola, presso Cutro, e diventato comandante in capo della flotta musulmana con il nome di Ugùk Alì, meglio noto come Occhialì. Avvenimenti che consentirono di arrivare alla vittoria di Lepanto del 1571, quando l'armata cristiana di don Giovanni d'Austria, figlio naturale di Carlo V, sconfisse i Musulmani di Alì Pascià ed avviò al declino il potere marittimo turco e barbaresco, "al quale non rimase altro vigore offensivo verso l'Italia meridionale che d'incursioni, saccheggi e prede da corsari - annota Croce- e così il Paese, già campo di continue battaglie tra pretendenti e oggetto d'invasioni straniere, entrò in una pace quasi indisturbata per circa un secolo e mezzo.
"Il baronaggio, con l'unione del Regno alla corona di Spagna, parve smarrire un tratto quella tanta forza e audacia, di cui aveva sempre dato prova verso i vecchi suoi re", continua lo studioso di Pescasseroli, precisando che "la maestà del nuovo sovrano gl'incuteva rispetto, e da rispetto e da timore fu soverchiato, dopoché Aragona e Castiglia e Napoli e Sicilia e gli altri domini si furono congiunti, nella persona di Carlo V, con l'Impero".
La repressione del 1528, quando il partito angioino era sceso in campo a favore dell'esercito francese che assediava Napoli ed i suoi baroni si erano recati in Puglia ed in Calabria per sollevare gli abitanti ed occupare le terre, fu feroce e significativa: alcuni nobili persero la vita sul patibolo, altri andarono esuli in Francia, altri ancora furono privati dei loro beni e castigati. Spariti da tempo gli Orsini, i Caldora, i Del Balzo, i Ruffo ed i Caracciolo, i Sanseverino principi di Salerno con l'altro ramo dei principi di Bisignano rappresentavano l'ultima superstite delle grandi case baronali del Regno. Nel conflitto con il viceré spagnolo, però, il superbo principe di Salerno soccombette e, privato di tutti i possedimenti, trovò rifugio in Francia, come i suoi antenati molti anni prima, mentre l'altro ramo della casa, quello dei principi di Bisignano, se ne stava cheto e ubbidiente - scrive Croce - e anzi procurava di dare prove di zelo.
"Fu così che i re di Spagna non solo impedirono che persistesse o si rinnovasse la potenza politica del baronaggio nel Regno di Napoli, ma, per mezzo dei loro viceré, si adoperarono a ridurre i baroni a condizione di sudditi, adeguandoli alle altre classi sociali. Facendo così di necessità virtù, un nuovo sentimento si venne formando presso i baroni e, sul loro esempio e sulla loro autorità, si venne allargando a tutte le altre classi, invece di quello individualistico che aveva dominato in passato: il sentimento della fedeltà. La fedeltà al sovrano, al re di Spagna, conclude lo studioso, diventava vanto, orgoglio, punto d'onore delicatissimo".
Quando la città di Napoli, nei moti del 1547, prese le armi e uccise molti soldati spagnoli, fu molto attenta a non cadere "in ribellione" e fece sapere che una cosa era il viceré, altra cosa era il sovrano; ed anche il popolo di Masaniello, un secolo dopo, scese nelle piazze al grido di "Viva il re di Spagna". La parola e l'immagine di "ribellione", ricorda Croce, suscitava un brivido di raccapriccio, come il più orrendo dei delitti, il parricidio o l'empietà.
Ma i baroni - continua lo studioso - componevano, assieme al clero, la classe dei grossi proprietari terrieri, che alla rendita della terra univano molti altri proventi per monopoli e prestazioni varie, nonché l'esercizio di alcune giurisdizioni, le quali, oltre ad essere fonte di lucro, davano modo di dominare localmente e imporre rispetto ai diritti del proprietario, e talvolta agevolarne gli abusi. E ciò fu evidente in Calabria in maniera molto più chiara rispetto ad altre terre del Regno.
La regione, che aveva dovuto fronteggiare la penuria del 1693, del 1697 e del 1701, si era affacciata al nuovo secolo con una rete stradale fragile e precaria, fatta di vie in terra battuta, di sentieri e mulattiere che collegavano le vie principali ai nuovi centri abitati, sorti in prevalenza sulle montagne, oppure ai luoghi delle fiere, alle fontane, ai corsi d'acqua. L'antica via Popilia penetrava attraverso il valico di Campo Tenese e proseguiva verso Cosenza, per poi congiungersi con la litoranea sul Tirreno, superato il fiume Savuto fino alla Piana di Sant'Eufemia; la strada era stata riattivata dal viceré d'Alcalà nel corso del Cinquecento; aveva subìto variazioni in alcuni tratti, ma conservava intatto il suo percorso nei punti di attraversamento più importanti e delicati.
Il sistema viario romano appariva ormai in decadenza, scrive Pietro Dalena, e strade e corsi d'acqua acquistano il senso di complementi economici e dinamici del territorio, in aderenza ad un quadro politico ed economico profondamente mutato. Esisteva un servizio di posta da Napoli a Reggio, però spesso il postiglione perdeva la vita ucciso da banditi protetti da compiacenti baroni, testimonia Pietro Moretti riferendosi all'uccisione del corriere Matteo Mennella, avvenuta nei pressi di Rende nei primi anni del Settecento. E quando il mastro corriero riusciva a salvare la vita, spesso arrotondava la paga con il contrabbando di tabacco stivato a cassetta. I passeggeri diretti a Napoli preferivano imbarcarsi nel porto di Paola, e la via del mare era considerata più veloce ed anche più sicura in un'epoca in cui la pericolosità delle strade era proverbiale.
Da un lato la malaria costituiva un rilevante fattore negativo per lo sviluppo demografico, dall'altro le condizioni igieniche e di abitabilità contribuivano ad elevare i tassi di mortalità della popolazione. Nei centri abitati mancavano i servizi essenziali, le fogne e le opere per l'approvvigionamento idrico, e la famiglia contadina viveva in misere abitazioni in compagnia degli animali domestici.
Nelle case del quartiere di Santa Lucia - scrive D. Conti parlando di Cosenza - l'umidità è elevatissima e le mura delle case, per lo più con parete appoggiata al dosso della montagna, trasudano abbondantemente acqua, mentre la categoria più numerosa dei cittadini - il bracciale o il faticatore della terra - ha posto la sua residenza nelle torri che circondano la città, scrive Moretti, o all'interno di questa come ortolano o affittatore di qualche linza di terra.
Il tasso di concentrazione urbana era al di sotto della media del Regno, con punte minime nella Calabria Citra, ed in particolare nella Piana di Sibari, nel colle piano del Marchesato e poi nella Piana di Sant'Eufemia, a riprova dello spostamento della popolazione dalla costa verso le montagne. Nella zona jonica il latifondo era sfruttato per il grano e la pastorizia, mentre nella zona tirrenica molte terre venivano strappate alle paludi e rese coltivabili dal lavoro dell'uomo.
La condizione delle coste non aveva consentito la creazione di grandi porti, anche perché il governo spagnolo aveva vietato ai marinai il lungo corso ed il maneggio di grosse navi, ed il commercio marittimo trovava la sua attuazione grazie alla presenza di numerosi approdi che favorivano il trasbordo ed il cabotaggio. Nonostante ciò, i mercanti di Scilla riuscivano ad intrecciare rapporti con Venezia e Trieste, e da quei porti gli scambi proseguivano per regioni come il Tirolo, l'Istria e la Dalmazia, mentre i marinai di Parghelia, riuniti fin dal 1692 in una società cooperativa di mutua assistenza chiamata "Monte delli marinari di Parghelia", esercitavano il commercio marittimo fuori dai confini del Regno.
La monarchia spagnola, scrive Giuseppe Brasacchio, continua a costruire una struttura burocratica e a dare un'organizzazione moderna al Regno, ma codesta opera bisecolare trova un limite nell'immanente retaggio di un'economia e di una società aventi particolari connotati. Nella fase di ascesa la Calabria manifesta le spinte propulsive che provengono dall'esterno: la demografia, la produttività, i traffici e tutta l'economia si espandono; la struttura sociale, già rigida e scarsamente articolata, si arricchisce con l'affioramento di nuovi ceti e di una borghesia. Ma nella fase regressiva, la regione rivela altrettanta sensibilità, allorquando i fattori esogeni vengono meno: la demografia e l'economia declinano rapidamente e la società si appiattisce, gl strati superiori si fondono nella casta della nobiltà cittadina e feudale, mentre gli strati inferiori sono compressi e livellati al basso verso l'amorfo ed anonimo popolo e la plebe rurale.
In Calabria, continua Brasacchio, i progressi durante la presenza spagnola sono modesti, se si pensa ai giganteschi passi in avanti che si compiono verso un rapido avvio di rinnovamento politico, economico e sociale negli altri Stati d'Europa e nella stessa Italia centro-settentrionale. Il processo di differenziazione delle aree depresse del Sud va delineandosi ed il cammino del Mezzogiorno si snoda con lentezza, attraverso mille e mille problemi di miseria, di disgregazione sociale, di malaria, di clima, di arretratezza che travagliano la società e l'economia.
Per tutto il Seicento, scrive Gaetano Cingari, la storia della Calabria non era stata altro che una successione di episodi banditeschi, di incursioni di pirati turchi, di lotte cittadine contro la corrotta amministrazione e la reazione signorile; e bisognerà attendere il 1647 e la rivoluzione di Masaniello per conoscere un diffuso e collegato tentativo di conseguire un assetto politico e amministrativo diverso da quello imposto dai viceré spagnoli e dai loro disonesti rappresentanti provinciali. Detto questo, si capisce come l'involuzione economica, sociale e civile del Viceregno napoletano finiva per essere il risultato di una lunga serie di eventi, che andavano dalle epidemie e carestie ai terremoti, dalle ondate migratorie alla progressiva degradazione delle attività economiche, dovuta, quest'ultima, al generale fenomeno di decadenza che interessava l'Italia ed il Mediterraneo, ma anche all'inasprimento dei vincoli feudali e al mutamento delle strutture del paese.
L'amministrazione dei comuni era stata raddrizzata dal duca d'Alba grazie ai bilanci che per opera del reggente Carlo Tappia venivano utilizzati per definire le rendite e le spese di ciascun ente locale, ed il censimento del 1669, voluto dal viceré d'Aragona, aveva allineato al numero reale degli abitanti le tasse a carico dei comuni. Però il processo di fusione della nobiltà antica con l'aristocrazia moderna aveva dato luogo ad una classe di proprietari terrieri che svolgevano un ruolo di dominio e di egemonia, mentre la monarchia, che si era affermata come il potere più forte, aveva rafforzato l'alleanza con le classi privilegiate contro la piccola borghesia, gli artigiani ed i contadini. E con queste forze sociali, oltre che con un ceto civile in ascesa composto da speculatori ed avvocati, si chiudeva il secolo XVII, e con esso si avviava a termine il viceregno spagnolo del Regno di Napoli.
Cosa rimane, oggi, della dominazione spagnola sulla Calabria? Di quella dominazione che, secondo Croce, ha governato il Regno di Napoli come sé stessa, con la medesima sapienza o la medesima insipienza?
Domenico Ficarra ha scritto che di quel periodo è rimasto, nella coscienza popolare, l'atteggiamento della rassegnazione e della rivolta, della diffidenza e della speranza, sentimenti opposti eppur compresenti nell'animo dei Calabresi; ed un profondo senso di sfiducia nei confronti del potere pubblico. Nelle classi dominanti è rimasto il senso del privilegio, una certa boria personale e la tendenza a considerare il potere più come fonte di vantaggi personali e familiari che di doveri nei confronti degli amministrati. In generale, è poi rimasto uno scarso senso della vita associata, la prevalenza del privato sul pubblico ed il ripiegarsi sulla famiglia, sentita come l'unica realtà sociale capace di soccorrere l'individuo nel momento del bisogno.
Mentre M. Torcia, sulla fine del Settecento, scriveva che gli Spagnoli, "lungi dall'aver mai vibrato il minimo tratto di penna contro gli abitatori divenuti loro consudditi, hanno al contrario dato loro le maggiori prove di amorevolezza, di eguaglianza, e, per così dire, di fratellanza; han diviso i piaceri ed i malanni, le miserie ed i vantaggi con porzione tanto eguale che la prosperità e l'nfelicità della madre patria sono state, secondo le diverse epoche, senza differenza comuni a queste sue province". E lo stesso Croce, nella sua Storia del Regno di Napoli, non esita a dire che "l'opera che la monarchia spagnuola condusse tra le varie classi sociali fu anche opera mediatrice di pace sociale, più volte procurò d'impedire o di temperare gli eccessi e gli abusi dei baroni contro i vassalli; e il popolo fu castigato e represso nei suoi tumulti e violenze, ma anche protetto. I tribunali condannavano di frequente i feudatari per le violenze, estorsioni e prepotenze d'ogni sorta... Politica a volta a volta antifeudale e antiplebea, dalla quale il ceto medio o civile trasse il maggior profitto, conforme anche in questo caso al generale avviamento e progresso europeo".
Citiamo, inoltre, la risposta che Indro Montanelli ha dato ad un lettore sul Corriere della Sera del 7 gennaio 2001. "A me l'Italia attuale non piace affatto, scriveva il giornalista. Non ha una coscienza morale. Non ha una coscienza civile. E' un paese di mafie. Lo è perfino la sua cultura, incapace di comunicare alcunché a coloro che più ne avrebbero bisogno, e di uscire dai suoi circuiti chiusi come cosche. E' un Paese corrotto, un Paese fazioso, insieme timorato e miscredente, un Paese in cui ognuno è inteso soltanto al suo particulare come lo chiamava il Guicciardini. Ma quando raffronto questa che abbiamo sotto gli occhi all'Italia apolide del Sei e Settecento, semplice espressione geografica, come spregiosamente ma giustamente la chiamava Metternich, l'Italia servile e ruffiana di Francia o Spagna-basta che se magna, mi sento quasi orgoglioso di essere nato nell'Italia post-unitaria, pur oberata di tutti i difetti di cui sopra, e che confermo".
E concludiamo con Giuseppe Galasso, il quale scrive che "complessivamente l'azione storica svolta durante due secoli dalla Spagna a Napoli fu di portata eccezionale e si concretò nel porre i fondamenti dello stato moderno nel Mezzogiorno, ossia nello sforzo, da essa compiutovi, di organizzare lo stesso tipo di potere accentrato e assolutistico che contraddistingue gli stati dell'Europa occidentale del Cinquecento e del Seicento. Quando le vicende della politica internazionale, dopo di aver allontanato la Spagna da Napoli nel 1707 e permesso un breve periodo di sudditanza del Regno dal ramo viennese della dinastia asburgica, porteranno nel 1734 alla restaurazione dell'indipendenza napoletana - scrive lo storico - si vedrà che il Mezzogiorno, pur con tutti i secolari problemi di disgregazione, di miseria e di arretratezza che ne affliggono la vita politico-sociale e l'economia, è, tuttavia, un paese tutt'altro che povero di interne energie: un paese che, nel giro di pochi decenni, sarà in grado di affrontare un profondo sforzo di rinnovamento e di esprimere una cultura e un personale politico di rilievo europeo, provando che due secoli di faticoso travaglio all'ombra del trono di una dinastia straniera non erano trascorsi invano e che il Regno del 1734 non era più né quello del 1501 né quello del 1647/48".
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