LA CALABRIA VERSO IL SETTECENTO
(di Armando Orlando)
Dopo la fase di espansione economica e demografica del Cinquecento, la Calabria era sprofondata nella crisi del Seicento, ed entrambi gli avvenimenti sono stati dettagliatamente descritti in diversi capitoli pubblicati nei numeri precedenti. Quello che ci preme ricordare in questa sede sono le condizioni di vita della popolazione calabrese nel Seicento, e lo facciamo riportando per intero le parole di un cronista contemporaneo, tratte da un codice della Biblioteca Apostolica Vaticana: "La gente di bassa mano comunemente nel vivere, nel vestire, e nell'habitare non può essere più miserabile. E' nata o destinata agli stenti. Vive di tristo pane, o di acqua pura. Tolera ogni disagio, e prodiga della vita è incredibile con quanta sicurezza s'esponga per vilissimo prezzo al caldo, al freddo, alle nevi, alle piogge, all'intemperie d'ogni stagione, senza riparo di veste, scalza, e poco meno che nuda". Parole che non necessitano di commento. In campo economico, l'attività che più di tutte risentì della fase di ristagno fu l'industria della seta, e ciò arrecò grave danno alla regione. Il commercio serico calabrese, che dopo l'espulsione degli Ebrei si era giovato della presenza di mercanti genovesi e lucchesi, i quali impiantarono mangani per la trattura del filato, risentì persino dei provvedimenti restrittivi emanati nel 1653 dal governo spagnolo contro la Repubblica Ligure, ed il declino della produzione è reso evidente dai dati riguardanti la seta sgabellata in Calabria: 811 mila libre nell'annata 1586/87, 567 mila nel 1641/42 e 473 mila nel 1653/54. Nel periodo in cui la seta calabrese veniva acquistata a Reggio dai mercanti di Messina, gli effetti negativi legati alla crisi che si era manifestata intorno alla metà del Seicento risultavano in parte alleviati. Ma quando la città dello Stretto si ribellò agli Spagnoli e perse gran parte delle prerogative e dei privilegi commerciali, decadde in Calabria anche la coltura del gelso, che rappresentava la base della produzione serica e che era arrivata a coinvolgere quasi tutte le famiglie rurali, impegnate nelle attività di allevamento del baco da seta . A Catanzaro, come abbiamo più volte sottolineato, i telai furono più di mille, ma la penuria di materie prime nel 1672, la richiesta del pagamento delle tasse da parte degli arrendatori nonostante le esenzioni, ed infine la peste del 1688 furono avvenimenti che gettarono nella disperazione la città, e da allora l'industria della seta non si è più ripresa. In campo demografico, la crisi del Seicento - che in Italia fu l'ultima grande crisi, in quanto dopo di essa ebbe inizio una duratura espansione della popolazione italiana - in Calabria colpì in misura differenziata le varie zone, con quelle tirreniche centro-meridionali - scrive Giuseppe Caridi - che nella seconda metà del Cinquecento avevano avuto un incremento considerevole della densità dei fuochi, a fronte di una complessiva stagnazione delle rimanenti zone, appartenenti per lo più al versante ionico. Secondo i censimenti fiscali - precisa Caridi - al forte calo demografico del versante jonico del Pollino e del Marchesato di Crotone, che tra il 1595 ed il 1669 videro dimezzati i propri fuochi, si contrappone la tenuta del Catanzarese e la crescita del Versante dello Stretto. Così si passò dai 48.269 fuochi risultanti dalla numerazione ordinata da Carlo V nel 1521, ai 110.018 fuochi del 1595, per tornare a scendere fino ai 81.534 fuochi del 1669, ultima numerazione del periodo spagnolo. Se l'opinione più diffusa tra i demografi è quella di assegnare al fuoco una consistenza media di 4,5 individui, come ricorda Caridi nel libro "Popoli e terre di Calabria nel Mezzogiorno moderno", la popolazione della regione passò, in quei secoli, da 217.210 a 495.081, e poi a 366.903 abitanti. Il numero dei centri abitati passò da 283 nel 1521 a 323 nel 1595, mentre le città demaniali erano in tutto 15: Amantea, Pietramala, Cosenza, Longobucco, Rossano, Scigliano, Crotone, Catanzaro, Reggio, Stilo, S. Agata, Tropea, Taverna, Policastro e Seminara. Nel 1669 i centri abitati arrivarono a 331, e la crisi demografica, pur avendo determinato una consistente diminuzione della popolazione residente, mantenne inalterato, come si vede, il numero delle terre abitate, ed insieme con Reggio e Tropea, solo Catanzaro riuscì a superare i duemila fuochi. Di segno contrario l'andamento demografico riguardante la città di Napoli, capitale del viceregno, passata da 75 mila abitanti a metà del '400 a 300 mila a metà del '600; di questi, 30 mila erano ecclesiastici e controllavano un quarto della proprietà terriera, 10 mila erano borghesi e 2 mila nobili; il resto, circa 260 mila persone, erano popolani e plebei. Napoli era, allora, la città più popolosa d'Italia, seguita da Milano, dove i nobili preferivano astenersi dalle attività industriali e commerciali per privilegiare gli investimenti immobiliari e gli acquisti di titoli feudali, da Venezia, dove fioriva la dolce vita ed il Maggior Consiglio aveva vietato alla nobiltà l'esercizio dell'industria e della mercatura, e poi da Roma e da Palermo. Essa era cresciuta a dismisura, grazie anche all'arrivo dei nobili che avevano abbandonato i loro feudi, in provincia, ed erano venuti a vivere nella città partenopea portandosi dietro ingenti risorse finanziarie e innumerevoli rendite. Si sapeva che la capitale - scrive Giuseppe Galasso - era esente da molte delle contribuzioni alle quali invece era soggetto il Regno, e per questo la popolazione di Napoli e dei suoi Casali non era più compresa nelle numerazioni fiscali fin dal 1481. Come attratto da un miraggio, il popolo fuggiva dalle province e andava a vivere nella città campana, ma le strutture e l'economia non erano adeguate per sopportare un tale afflusso di gente, ed il fenomeno non faceva altro che aumentare la povertà ed il parassitismo. Ed è proprio nella fase di crescita, ed esattamente intorno al 1630, che nella Napoli sovraffollata e impoverita era avvenuta una piccola rivoluzione alimentare. Fino ad allora il pasto principale era costituito dalla carne - scrive Serena Zoli - come dovunque in Europa, e dalla foglia, che è la verdura, ma soprattutto cavolo e broccoli. Ma in una città che è diventata una vera metropoli per i tempi, i luoghi di produzione della verdura diventano troppo lontani, e sale il prezzo della foglia, mentre la carne scarseggia ormai in tutta Europa. Vengono inventati allora la gramola ed il torchio meccanico, che permettono una maggiore e più rapida produzione della pasta, nascono diverse botteghe artigiane ed i prezzi di conseguenza si abbassano. La pasta secca come la conosciamo oggi, portata in Sicilia dagli Arabi e diffusa poi in Liguria e Toscana grazie alle navi genovesi, diventa un genere di largo consumo anche a Napoli, ed i maccheroni cominciano a saziare la plebe. Nel campo della sicurezza e dell'ordine pubblico, c'è da segnalare lo sforzo sostenuto dagli Spagnoli per difendere la Calabria dagli sbarchi dei corsari e dei pirati barbareschi. Un impegno che si è manifestato sia con il potenziamento e la ristrutturazione di numerosi castelli e fortezze, che con la costruzione delle torri di guardia, le quali, verso la fine del Seicento, erano oltre settanta e si presentavano disseminate lungo tutta la linea di costa della regione. A questo proposito giova ricordare pure l'azione del marchese del Carpio, viceré dal 1683 al 1687, il quale condusse una lotta senza quartiere contro il brigantaggio e l'anarchia feudale, fenomeni che avevano portato i baroni a proteggere i fuorilegge per poi usarli come arma di ricatto e di violenza verso le classi deboli e verso lo stesso potere centrale. Avvenimenti e fatti di anarchia diffusi anche in Calabria, come testimoniano gli episodi del 1686 legati al destino di due illustri famiglie del posto. Ci riferiamo agli Abenavoli baroni di Montebello ed agli Alberti marchesi di Pentedattilo. Bernardino Abenavoli si invaghì di Antonia Alberti, sorella del marchese Lorenzo, ma l'unione fu resa impossibile a causa dell'avversione della famiglia di lei, ed allora scoppiò la tragedia: il 16 aprile 1686 gli Abenavoli marciarono contro gli Alberti, occuparono il castello di Pentedattilo e fecero una strage, lasciando sul terreno numerosi morti. Quella del marchese del Carpio fu una lotta che "troncate le relazioni fra banditi e baroni, venne attuata compiendo regolari spedizioni militari, ponendo taglie e castigando i favoreggiatori; le quali cose portarono l'effetto che tra il 1683 ed il 1687, sotto il viceré, il grande brigantaggio fu fiaccato in tutte le province, e anche nei montuosi Abruzzi, e non ricomparve se non dopo un secolo in conseguenza di nuovi sommovimenti politici e sociali". Ma l'azione del Marchese andò oltre la repressione degli episodi criminosi e di violenza. Egli lavorò per sostenere la fusione della nobiltà cittadina napoletana con la nobiltà feudale del Regno, allo scopo di favorire la nascita di una classe di proprietari terrieri, in una logica di sfruttamento dei beni feudali e di godimento della terra. La classe feudale si confermò così classe dominante, mentre la scomparsa delle vecchie famiglie baronali, le professioni civili e gli addetti alle funzioni dello Stato creavano le condizioni per il sorgere di un nuovo ceto, che si collocava fra la feudalità ed il popolo. E' il ceto dei borghesi - avvocati, magistrati, dottori, appaltatori d'imposte, funzionari pubblici - che, nella sola città di Napoli, era arrivato a sfiorare le diecimila unità, e che lentamente si diffondeva nelle restanti terre del Regno. In campo religioso, al quadro delle parrocchie povere e dei conventi basiliani in rovina faceva da contraltare, in Calabria, l'ascesa dei nuovi ordini religiosi e delle mense vescovili. Fra queste ultime le più dotate di rendita erano, nell'ordine, le mense di Cosenza, Mileto, Cassano, Reggio, Tropea, S. Severina, Nicotera e Nicastro, mentre gli ordini più ricchi risultavano i Domenicani ed i Gesuiti, i primi con 30.000 ducati circa ed i secondi con oltre 12.000 ducati di rendita annua. I possedimenti della Certosa di S. Stefano a Serra San Bruno arrivarono fino alla costa ionica, mentre il santuario di San Domenico a Soriano era meta incessante di pellegrinaggio proveniente da diverse regioni d'Italia e dall'Europa, e ciò aveva reso talmente ricchi i frati del luogo che il monastero acquistò nel 1652 lo stesso feudo di Soriano, devoluto alla Regia Corte alla morte dell'ultimo signore feudale, esponente dei Carafa di Nocera. Più in generale, la situazione della chiesa calabrese migliorò dopo il Concilio di Trento, anche se faticosamente, perché - scrive Domenico Ficarra - la pastoralità del Concilio tridentino, che tendeva a rendere più meditato l'esercizio della fede e della devozione del popolo, stentò a penetrare in Calabria, dove era molto diffuso il culto delle reliquie e dove c'erano venerazioni locali non sempre ortodosse, tradizioni magiche e pratiche religiose in contrasto con le intenzioni del Concilio stesso. Vediamo ora con Giuseppe Brasacchio come era organizzata la struttura degli uffici pubblici nel Viceregno, quando il Seicento volgeva al termine e si avvicinava un nuovo secolo, il Settecento, destinato ad iniziare con la fine della dominazione spagnola anche in Calabria per proseguire con il sogno riformista dei primi Borbone e con la diffusione delle idee della Rivoluzione Francese. Il Consiglio Collaterale esercitava funzioni politiche, finanziarie, giurisdizionali e giudiziarie, e sostituiva il viceré in caso di impedimento o di morte. Esso, inoltre, controllava direttamente i castelli del Regno, che per la Calabria erano quelli di Cosenza, Amantea, Tropea, Crotone, Oriolo e Taverna. Dalla Camera della Sommaria dipendeva l'amministrazione giudiziaria delle vertenze. Nelle Udienze si svolgevano le cause di prima istanza delle province; il Sacro Regio Consiglio era il tribunale di ultima istanza. Le Udienze dipendevano dai Governatori nelle terre demaniali e dagli ufficiali baronali nelle terre feudali. La Tesoreria curava l'amministrazione finanziaria ed i Tesorieri delle province si avvalevano della collaborazione degli esattori, però la riscossione di molte imposte risultava data in appalto agli arrendatori, i quali anticipavano allo Stato una somma pattuita di denaro dietro il riconoscimento di alti interessi, ed incassavano un aggio sugli importi riscossi. L'esazione dei diritti di esportazione era, invece, curata dai Maestri Portolani, che in Calabria risiedevano a Crotone e a Sibari, nei centri di maggiore esportazione dei cereali. Nei Fondachi si riscuotevano i diritti sul movimento delle merci, e nella regione i doganieri avevano sede a Cosenza, Castrovillari, Rossano, Corigliano, Oriolo, Cariati, Crotone, Belcastro, Squillace, Roccella, Gerace, Bagnara, Palmi, Tropea, Nicotera, Bivona, S. Eufemia, Nocera, Amantea, Fiumefreddo, San Lucido, Paola, Cetraro e Scalea. Così strutturato, l'ordinamento politico e amministrativo del Viceregno ebbe notevole incidenza nella vita sociale ed economica della Calabria. Parallelamente al potenziamento della burocrazia statale, si ebbe, però, un ampliamento delle amministrazioni feudali, attraverso la vendita da parte dello Stato delle competenze giurisdizionali e fiscali, allo scopo di far fronte alle impellenti necessità di mezzi finanziari, ed anche su questo argomento ci siamo soffermati con dovizia di particolari nel corso dei precedenti capitoli di questa storia. La Corona non si preoccupava di turbare l'equilibrio politico a favore del baronaggio, perché la potenza dell'impero castigliano garantiva ampiamente il prevalere del potere centrale su quello baronale. I fatti confermarono che il calcolo dei governanti spagnoli era stato esatto sul piano politico, scrive sempre Brasacchio, mentre Rosario Villari aggiunge: è vero che il concentrarsi della feudalità attorno alla Corte di Napoli fu un fattore di rafforzamento dello Stato per il maggior controllo che il governo potè esercitare sull'aristocrazia, e ciò favorì in molti casi l'eliminazione di episodi di anarchia feudale, ma è anche vero che, così operando, la monarchia è riuscita solo in piccola parte a far entrare nel nuovo ordine il baronaggio, a trasformarne la pubblica funzione in senso più moderno, cioè - spiega lo storico - più in armonia con lo Stato e con i suoi organi. La carica di viceré di Napoli era reputata, all'epoca, una delle primissime, se non la prima, fra quelle che venivano concesse nei territori posseduti dagli Spagnoli; e ciò avvalora la tesi di quella "consapevolezza napoletana della propria importanza europea" sottolineata da Galasso quando scrive che il regno di Napoli era diventato, dopo la Castiglia, il più importante, non solo per le risorse finanziarie che la monarchia ne traeva, ma anche come elemento essenziale del predominio asburgico in Europa. Ma la Spagna era avviata a diventare un Paese in declino. Dopo il boom del siglo de oro abbondava di uomini di lettere ma mancava di artigiani, scrive Carlo M. Cipolla; il paese sovrabbondava di burocrati e di letterati senza impiego, ma doveva importare la maggior parte dei prodotti manifatturieri di cui aveva bisogno. Le grandi ricchezze delle colonie americane, aggiunge Gianni Oliva, anziché essere investite in strutture produttive interne, sono state dilapidate negli acquisti dai mercanti stranieri e nel sostegno delle spese militari necessarie per controllare domini tanto estesi; nel momento in cui le riserve d'oro e d'argento delle miniere d'oltre Atlantico cominciano ad esaurirsi, l'economia spagnola si riscopre debole e perdente di fronte a Paesi che in un secolo hanno fatto tesoro delle nuove acquisizioni scientifiche e sono progressivamente cresciuti. E la Spagna, a sentire Indro Montanelli, governava il viceregno come se stessa, con criteri e metodi antiquati che piombarono la colonia nel più spaventoso baratro economico. Alla sprovvedutezza amministrativa e alla cupidigia dei dominatori facevano riscontro l'abulia e l'inettitudine dei dominati, a cominciare dalla classe più altolocata, la nobiltà. C'era quella che preesisteva alla conquista spagnola e non dimenticava i suoi titoli di priorità. Nè i Re aragonesi - aggiunge il giornalista - né i viceré di Madrid erano mai riusciti a ridurla all'obbedienza. E c'era la nobiltà nuova che non infrenava la vecchia, ma anzi l'imitava nell'arroganza. Anche il nobile di fresca data si considerava sovrano assoluto nel suo "feudo", anche lui si sentiva al di sopra della legge. Ma nei "feudi" i signori risiedevano di rado, alcuni non vi avevano mai messo piede. Li amministravano - si fa per dire - tramite i gabelloti, così chiamati perché pagavano una gabella o affitto annuo al padrone, e si rifacevano spietatamente sui poveri contadini. Per questo la degradazione del Sud ad area depressa - dice Montanelli - l'hanno in buona parte sulla coscienza quei nobili patiti di precedenze e di pennacchi, e refrattari a ogni forma d'impegno e di lavoro, dal che derivava l'assottigliarsi del loro patrimonio mentre si formava una borghesia abbiente; che altrove era composta d'artigiani, mercanti, imprenditori, e invece nel viceregno era composta soprattutto d'appaltatori di gabelle, usurai, speculatori, avvocati. Assieme a questo ceto medio e all'aristocrazia esisteva un'altra classe benestante e privilegiata, il clero. Ma accanto agli ecclesiastici "veri" - ci informa Galasso - prosperava "una turba di parassiti o di calcolatori, attratti allo stato ecclesiastico...per l'esclusivo vantaggio che ne derivava". Con 131 vescovati e 21 arcivescovati e con 2.000 case religiose - aggiunge lo storico - il Regno presentava, a metà del secolo XVII, nel campo del privilegio ecclesiastico, una situazione che pregiudicava, per molti versi, ogni potenziale sviluppo e la stessa vita quotidiana della società meridionale. Nel 1670 i soggetti esenti dal foro comune erano ben 56.000, e la situazione non migliorò nel corso del nuovo secolo. Agli inizi del Settecento si contavano circa 47.200 sacerdoti e 25.400 frati. I privilegi delle chiese e la pressione psicologica e morale da un lato, ed il numero dei chierici creati senza bisogno dall'altro, determinarono l'estensione della monomorta nel Regno, la quale arrivò a rappresentare sicuramente un quinto della proprietà libera, di quella proprietà, cioè, non sottoposta a vincolo feudale. Con un quadro di riferimento così definito la Calabria, assieme alle altre regioni del Sud, si apprestava a lasciare il Seicento, in un periodo in cui a Firenze i migliori botanici sistemavano a museo Palazzo Pitti e gli Uffizi, a Venezia nasceva Antonio Vivaldi, a Roma Bernini ultimava il colonnato di San Pietro e veniva fondata l'Accademia dell'Arcadia, mentre la regina Cristina di Svezia finanziava l'apertura del teatro di Tor di Nona e sulle scene trionfava Tiberio Fiorilli, l'attore conosciuto in Francia con il nome di Scaramouche. Ludovico Antonio Muratori, bibliotecario dell'Ambrosiana di Milano, continuava le ricerche che lo porteranno ad offrire per la prima volta agli studiosi una visione unitaria della storia d'Italia, e Giambattista Vico, filosofo e giurista, diffondeva i suoi insegnamenti dalla cattedra di retorica dell'Università di Napoli.
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